domenica, maggio 28, 2006

Crescita fisica e sviluppo psicologico

Gli insegnanti, i pediatri, gli psicologi sanno bene che ogni bambino, ogni ragazzo ha un proprio tempo di crescita fisica e di sviuppo psicologico. Questi due ritmi vanno di pari passo oppure sono indipendenti l’uno dall'altro? Le regole e le modalità con cui cresce il corpo sono le medesime con cui si sviluppa la mente? Esiste un modello unico dello sviluppo biologico e dello sviluppo psicologico oppure i due fenomeni si svolgono secondo modelli diversi? La domanda può essere posta anche nel modo seguente: "Con le attuali conoscenze, e possibile formulare una teoria generale della crescita e sviluppo?"

Prime ricerche
Nell'Ottocento e per gran parte del Novecento, l'applicazione dei medesimi metodi di ricerca - i metodi statistici - sia alle ricerche sulla crescita fisica sia a quelle sullo sviluppo psicologico, a partire da Quetelet, Galton e Pearson, ha spinto gli studiosi verso il tentativo di elaborare un modello generale che comprendesse tutti gli aspetti dello sviluppo, in particolare quello somatico e quello psicologico. A metà del '900 vi fu un'importante iniziativa dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale riunì un gruppo di scienziati allo scopo di individuare un modello generale di crescita fisica e psichica del bambino e dell'adolescente; lo studio si svolse fra il 1953 e il 1956. Nel gruppo erano rappresentate le seguenti discipline: fisiologia, biologia umana, auxologia, psicologia, psicoanalisi, psichiatria, etologia, antropologia culturale. Ne faceva parte Piaget. La costituzione del gruppo fu il risultato di un movimento, nato e sviluppatosi negli Stati Uniti. L'auxologo J.M. Tanner, in un libro pubblicato nel 1981, scrive che tale movimento fin dall'inizio si dedicò "filosoficamente" allo studio del "whole child". Quando fu fondata la rivista "Child Development", espressione del movimento, nel 1939 - continua Tanner - tre dei sei condirettori erano psicologi (gli altri tre erano un anatomico, un biochimico, un pediatra). Ma con gli anni il concetto di "whole child" non dette frutti e le discipline si separarono: dal 1960 la rivista si dedicò esclusivamente alla psicologia e sociologia, le questioni biologiche si trasferirono sulla rivista "Human Biology".

Piaget, portavoce
Dalla monografia "Child Development 1956" si ricava che il gruppo, di cui era portavoce Piaget, aveva rilevato una serie di caratteri comuni ai vari aspetti della crescita: innanzitutto i fattori che influenzano la crescita - genetici, ambientali (fisici e sociali) - e la loro interazione. Piaget parla anche di un fattore comune di equilibrio che regola soprattutto le interrelazioni. Si era parlato a lungo di stadi di sviluppo. Piaget dice che non c'era stato accordo fra biologi, psicologi e sociologi né sulla presenza di stadi né sulla loro definizione. Non vi fu concordanza sulla risposta alla domanda: "Esistono stadi di sviluppo oppure esiste un continuum senza salti né crisi?" Quanto alla definizione di stadio, per alcuni uno stadio è definito dalla caratteristica dominante (es. stadio orale di Freud), per altri dalla presenza di una struttura completa. Scrive Piaget: "Se gli stadi esistono oggettivamente, non possono che consistere di successivi gradi o livelli di equilibrio, separati da una fase di transizione o crisi, e ciascuno caratterizzato da una momentanea stabilità".
Un'altra domanda cruciale, posta da Piaget, è: "Se esistono stadi, si tratta di stadi generali, che includono al tempo stesso, per ogni livello, la totalità degli aspetti di sviluppo organici, mentali e sociali?" La risposta a questa domanda fu: "Non ci sono stadi generali. Già a livello biologico non ci sono strette relazioni fra vari aspetti (es. età ossea, età dentale ecc.)". Il gruppo si dimostrò concorde: non esistono stadi generali. Un'altra domanda che il gruppo formulò è se nell'ipotesi dell'esistenza di stadi somatici e psicologici, separati fra loro, esistano meccanismi comuni. "Una convergenza si può trovare nel meccanismo di transizione da uno stadio a quello successive cioè in certe caratteristiche del meccanismo di sviluppo", alle quali accenneremo.

Un contributo italiano
Della possibilità di formulare una teoria generale della crescita si è parlato in Italia nel 1983 in un congresso nazionale dell'Associazione Italiana di Auxologia Sociale e in un gruppo interdisciplinare, i cui contributi sono stati pubblicati a cura di Andrea Smorti in "Età Evolutiva" nel 1988. Un membro del gruppo, Sergio Caruso, alla domanda se ha un senso porsi da un punto di vista interdisciplinare alla ricerca di una teoria generale della crescita, risponde: "Sì, se si utilizza la teoria generale dei sistemi". Tale teoria, infatti "sembra potersi applicare alla descrizione di tutte quelle processualità, per quanto complicate, che rientrano nella definizione di 'un complesso di elementi in relazione di interdipendenza' ". Per quanto riguarda la crescita si può parlare di sistema aperto e complesso, con un rapporto d'interazione coordinato con l'ambiente esterno, con una connotazione probabilistica.

Continuità e discontinuità
Il gruppo si era posto, in partico-are, il problema della continuità e discontinuità del processo di crescita. Scriveva Graziella Magherini: "Discontinuo e continuo sono riconoscibili entrambi in situazioni ed eventi della psicoanalisi e dell'auxologia, situazioni ed eventi che si comportano come variabili." "Per quanto riguarda il punto di vista psicoanalitico - continuo a citare - possiamo considerare come funzioni continue tutti quei processi trasformativi che costituiscono la crescita mentale dell'analizzando, vale a dire le vicende fantasmatiche ed emozionali che emergono e si succedono nel tempo all'interno della relazione analitica e che permettono i processi di separazione ed individuazione ed il progredire verso livelli piu ampi e simbolizzati della conoscenza di sé." "La crescita mentale - continua Magherini - sembra dunque potersi definire come un processo di tipo continuo che, nei momenti di elaborazione, insight e resistenza, si caratterizza secondo gradi diversi di velocità."

Modello unico?
Le conclusioni che possiamo trarre da quanto abbiamo detto sono le seguenti.
Non sembra che i vari aspetti della crescita possano essere ricondotti ad un modello unico, meno che mai se per modello si intende un modello matematico. Al contrario si nota una corrispondenza tra i fattori di crescita. Forse esiste un'unica tipologia dei fattori che influenzano la crescita in tutti i suoi aspetti: fattori genetici, dispersi su molti cromosomi, diversi per quanto riguarda la velocità di crescita e lo status raggiunto; ambientali, che possono agire anche attraverso piccole impercettibili influenze che si sommano nel tempo; fattori di equilibrio (o coefficienti di interrelazione) che determinano i limiti entro cui hanno libertà di muoversi i vari fattori.

Stadi di sviluppo
Piaget ipotizza che esistano stadi sia nello sviluppo psicologico sia in quello somatico e che tali stadi abbiano in comune il meccanismo per il quale si passa dall'uno all'altro. Questa ipotesi è suggestiva, specialmente se si pensa al rapporto fra variazioni di velocità di crescita e acquisizione di nuove funzioni (ad esempio relazione tra accelerazione della crescita alla pubertà e nuovo assetto endocrinologico, sviluppo sessuale e psicologico).

Suggestioni
Suggestioni interessanti provengono oggi anche dallo sviluppo della genetica, della endocrinologia, della biologia molecolare. L'incredibile groviglio di cascate di relazioni fra innumerevoli sostanze, fra codici, trasmissioni di messaggi, recettori - che ha reso sempre più complesso anche il rapporto fra geni e ambiente - rende plausibile come basti una variazione in un punto qualunque dell'intreccio per giungere a un diverso risultato finale. Vi è la possibilità di ottenere risultati diversi per cause minime. E, al tempo stesso, a rendere particolare lo sviluppo di ciascun soggetto - fanciullo o adolescente - acquistano sempre maggiore rilievo i meccanismi di "riparazione", che vengono introdotti dagli adulti: medici, insegnanti, psicologi, genitori.
Ivan Nicoletti

lunedì, maggio 22, 2006

Crescita del bambino in paesi diversi

La crescita dei bambini, come ognuno di noi sa, è estremamente variabile.
Alla variabilità individuale, che determina le differenze fra un bambino e un altro nell'ambito della medesima popolazione, si associa la variabilità fra
popolazioni. Quest'ultima, alla quale dedichiamo questo articolo, dipende da
fattori ambientali - i più importanti dei quali sono la nutrizione, le
malattie e lo stato socioeconomico - e da fattori genetici, che possono anche essere responsabili di una diversa sensibilità, individuale o di gruppo, ai
fattori ambientali. La variabilità fra popolazioni interessa in particolare
le dimensioni, il ritmo di crescita e le proporzioni corporee. La conoscenza
di alcune delle principali differenze fra popolazioni sta diventando
indispensabile, soprattutto per i pediatri e gli insegnanti, oggi che i
bambini immigrati da varie parti del mondo sono nel nostro paese in numero
crescente.

Peso alla nascita
II peso medio alla nascita è più elevato nelle popolazioni europee (kg 3,3 -
3,5 nei maschi, 3,0 - 3,4 nelle femmine), nord- e sud-americane, nei
pellerossa nord-americani, nelle popolazioni benestanti del Medio Oriente e
nella popolazione Maori della Nuova Zelanda, mentre gli Afro-americani
statunitensi, anche se appartengono a famiglie benestanti, alla nascita
hanno un peso e una lunghezza inferiore ai neonati di razza bianca. In India, Pakistan e Bangladesh e in generale nel Sud Est asiatico i bambini hanno un
peso alla nascita basso, molto spesso inferiore a 2500 g, legato di solito
alla struttura corporea materna (le donne asiatiche di norma hanno una bassa
statura e un indice di massa corporea <18,5), e alle condizioni socio-economiche svantaggiate che sono causa di malnutrizione e di un maggior numero di gravidanze in età adolescenziale (di per sé fattore di rischio per un basso peso alla nascita).

Velocità di crescita staturale e ponderale
In tutte le popolazioni i bambini dopo la nascita crescono molto rapidamente,
anche se meno velocemente che in utero: l’incremento ponderale rallenta
gradatamente fino all'età di 2 anni, quando inizia di nuovo ad aumentare; la
velocità di crescita staturale invece progressivamente rallenta fino
all'inizio della pubertà.
Le differenze di velocità di crescita ponderale e staturale tra popolazioni
durante il primo anno di vita sono considerevoli e, come il peso alla
nascita, sono condizionate da fattori ambientali e fattori genetici. Queste
velocità rallentano maggiormente nei paesi in via di sviluppo rispetto ai
paesi industrializzati. La medesima diversità può essere osservata anche
fra gruppi della stessa etnia ma in diversa condizione socio-economica, a
dimostrazione dell’importanza che ha lo status socioeconomico sulla crescita
post-natale; non a caso i bambini africani di famiglie benestanti hanno un
ritmo di crescita molto simile a quello dei bambini dei paesi industrializzati.
La crescita dei bambini asiatici e afro-americani sembra essere maggiormente
influenzata da fattori genetici. I bambini afro-americani, che di norma
nascono di peso inferiore rispetto ai bambini di razza bianca, hanno
successivamente una crescita che li porta ad essere più alti e ad avere un
peso maggiore dei pari età bianchi, mentre quelli asiatici, che non nascono
di basso peso, hanno dimensioni corporee simili a quelle dei pari età europei
solo nei primi mesi di vita. A 6 mesi di vita i bambini di Hongkong, Tokyo,
Bangkok appartenenti a famiglie benestanti hanno peso e lunghezza inferiori
ai pari età europei, espressione da una parte di una malnutrizione cronica
multigenerazionale e dall'altra della variabilità genetica. In Africa invece
i bambini mostrano, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza,
un tipico rallentamento della crescita nel periodo compreso tra 6 e 12 mesi.
Va ricordato che il peso corporeo è sicuramente il parametro più condizionato
dai fattori ambientali: il peso di bambini asiatici, ben nutriti, di età
superiore a 2 anni è inferiore di 1,0-1,5 deviazioni standard a quello dei
pari età statunitensi, mentre i bambini nippo-americani della California
hanno un peso medio superiore agli standard statunitensi. La statura invece
sembra avere limiti "invalicabili", l'altezza media dei giapponesi che sono
in California da due generazioni è inferiore agli standard statunitensi.

Pubertà
Fino ad oggi non è stata posta molta attenzione sulla crescita nel periodo
dell'adolescenza nelle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, anche se gli
effetti negativi della malnutrizione e delle condizioni ambientali non
favorevoli non sembrano essere drammatici in questo periodo della vita. Anche
perchè gli adolescenti, in questi paesi, sono i sopravvissuti, ovvero
soggetti in grado di sopportare meglio le condizioni sfavorevoli. II
caratteristico spurt puberale (improvviso e notevole aumento di velocità) è
rilevabile in tutte le popolazioni, anche se in alcune di esse è poco
appariscente se non addirittura difficile da rilevare. Vi è un'ampia
variabilità individuale e tra popolazioni per età di comparsa, durata e
intensità dello spurt, anche se è sempre presente una correlazione negativa
tra età ed intensità. Negli afro-americani lo spurt puberale compare un anno
prima degli europei, nelle popolazioni asiatiche è in anticipo rispetto agli
europei, ma è ritardato rispetto agli afro-americani. La variabilità
interessa anche gruppi diversi della stessa popolazione: i soggetti che
vivono in condizioni sfavorevoli hanno uno spurt più tardivo ma più
intenso. L'età di comparsa del menarca è probabilmente il miglior indicatore
del timing della pubertà nelle femmine. A parità di condizioni ambientali
l'età media al menarca è 12,4 anni ad Hongkong, 12,5 anni negli
afro-americani statunitensi e in Giappone, 12,6-13,4 anni nei paesi europei,
in alcuni paesi latinoamericani, nelle statunitensi di razza bianca, mentre è
posticipato in Nigeria (13,5 anni) e nelle popolazioni della Melanesia
(15,5-18,0 anni).

Maturazione scheletrica
Come gli altri parametri è influenzata da fattori genetici e ambientali; i
bambini che vivono in condizioni disagiate o in altitudine hanno un ritardo
della maturazione scheletrica e dello sviluppo puberale, ma non della
maturazione dei denti, che per questo sembra essere maggiormente
influenzata da fattori genetici. I giapponesi e i cinesi hanno una rapida
maturazione scheletrica durante l’adolescenza, quando in 3 anni di età
cronologica acquisiscono 4 anni di età ossea; le popolazioni africane, anche
di classi agiate, e gli afro-americani di classi sociali povere hanno un'età
ossea più avanzata rispetto alle popolazioni europee.

Proporzioni corporee
La proporzione tra lunghezza del tronco (segmento superiore) e lunghezza
degli arti inferiori (segmento inferiore) è un'altra variabile che presenta
notevoli differenze tra popolazioni. Gli aborigeni australiani e gli africani
hanno un rapporto segmento superiore/segmento inferiore nettamente minore
degli europei e degli asiatici; questa differenza è già ben evidente a 4 anni
di età. Le popolazioni giapponesi e cinesi cominciano a presentare un
rapporto segmento superiore/segmento inferiore > 1 solo dopo la metà della
fanciullezza. Infine, esistono una variabilità della lunghezza degli arti
superiori, che sono più lunghi negli africani e nei cinesi rispetto agli
europei e agli altri asiatici, e una variabilità del rapporto larghezza delle
spalle/larghezza delle anche: tale rapporto è < 1 nei cinesi, è nettamente >1
nelle popolazioni africane, è lievemente > 1 nelle popolazioni europee e
nelle restanti popolazioni asiatiche.
Luca Tafi

venerdì, maggio 12, 2006

Milani e le famiglie: l’esperienza dell’AIAS

Alcuni passi della vita del Prof. Adriano Milani Comparetti hanno avuto, a mio avviso, una importanza fondamentale nella storia della riabilitazione e della cultura della disabilità a livello fiorentino, nazionale ed internazionale.

Si deve infatti ricordare che la sezione di Firenze della Associazione Italiana per l’Assistenza agli Spastici (AIAS) si è costituita nel Dicembre 1957, grazie soprattutto all’impegno del Prof. Adriano Milani Comparetti (primo Presidente della sezione): il Prof. Milani era allora Direttore dell’Istituto “Anna Torrigiani” della Croce Rossa Italiana di Firenze , dove svolgeva la sua attività di esperto della riabilitazione motoria.
Le risposte che l’Istituto dava non erano, a suo avviso, sufficienti a soddisfare le esigenze dei soggetti affetti da tetraparesi spastica e quindi egli reputò necessario istituire un’associazione che si prefiggesse lo scopo di gestire centri diurni dove, oltre alla riabilitazione, gli utenti potessero trovare anche risposte educative e ricreative. Nacque così la sezione AIAS di Firenze, con lo scopo principale di mettere in piedi il primo centro diurno che il Prof. Milani tanto caldeggiava.

Nei primi anni dopo la costituzione della sezione il Prof. Milani, nell’intento di raggiungere lo scopo finale, ebbe modo di collaborare sia con soggetti spastici che con le loro famiglie, riuscendo, talvolta con discussioni piuttosto animate, ad instillare in loro alcuni concetti fondamentali che vorrei brevemente ricordare:

• la consapevolezza che il servizio riabilitativo e educativo al disabile è un diritto e non una “benevola” concessione da parte delle Istituzioni Pubbliche;
• una nuova “cultura della riabilitazione”, fino ad allora sconosciuta, non più focalizzata sul solo intervento terapeutico ma articolata in tutti i suoi molteplici aspetti;
• la necessità del decentramento dei servizi riabilitativi sul territorio per avvicinarli all’utenza e evitare i difficoltosi spostamenti nei centri specializzati;
• la convinzione che un percorso riabilitativo completo debba necessariamente passare attraverso l’integrazione scolastica, educativa e sociale;
• l’esigenza di arginare l’istituzionalizzazione dei soggetti disabili creando centri residenziali assistiti (allora chiamati “casa famiglia”) distrubuiti sul territorio che permettano loro di mantenere i rapporti e le relazioni instaurate nella prima fase della vita nel proprio tessuto sociale.

Sono stati questi i principi ispiratori che hanno caratterizzato i quasi 50 anni di vita della sezione AIAS di Firenze e, seppur con notevoli reticenze, dell’Assemblea nazionale AIAS.

Un grosso sostegno alla costituzione del primo centro diurno fu dato dall’allora Sindaco di Firenze Giorgio La Pira, il quale, sulle ali dell’entusiasmo raccolto negli incontri che egli ebbe con le famiglie dei ragazzi disabili e con i tecnici dell’Istituto Torrigiani, si convinse della necessità di creare una struttura che permettesse ai ragazzi spastici di uscire dalle loro case, dove gravavano totalmente sulle famiglie.

Finalmente, nel 1964, venne realizzato il Centro Diurno “Gino Frontali” in Via dell’Erta Canina a Firenze, primo esempio nella città di struttura che univa ai servizi ambulatoriali e riabilitativi quelli educativi e ricreativi.
Fu in questi anni che ebbi il piacere di conoscere il Prof. Milani e fin dai primi incontri rimasi affascinato dagli ideali che egli portava avanti con tanto fervore e determinazione.

Sulla scia della creazione del primo centro di Via dell’Erta Canina altri vennero costituiti negli anni successivi, ognuno dei quali aveva caratteristiche particolari: il centro di Villa Betania per i soggetti con handicap molto grave e quello di Castello specializzato nella terapia occupazionale per adulti, dove venivano svolte attività di allevamento, giardinaggio e falegnameria. La sezione AIAS di Firenze si trovò a gestire direttamente in quel periodo un’ampia rete di servizi, arrivando ad impegnare, tra tecnici, ausiliari ed impiegati, più di 80 dipendenti e dando risposte, tra frequenze diurne o ambulatoriali, a più di 300 utenti. In questo periodo fu particolarmente importante il sostegno finanziario degli Enti Pubblici (Comune e Provincia di Firenze) che integrarono le insufficienti rette ministeriali di frequenza e contribuirono significativamente a coprire i costi di gestione delle strutture.

Ricordo come alcuni consiglieri dell’AIAS di Firenze che, sulla strada indicata dal Prof. Milani, hanno dato un contributo fondamentale alla realizzazione dei principi ispiratori precedentemente elencati sia a livello fiorentino che a livello nazionale. Primo tra tutti Bruno Mascherini, che ha avuto un importante ruolo nel far crescere le famiglie sia culturalmente che politicamente rispetto alle problematiche dei propri figli, ma come dimenticare il segno lasciato da Franca Vannozzi.
Grazie al contributo loro e di altri consiglieri la sezione AIAS di Firenze ha realizzato molti degli obbiettivi prefissati (in special modo la costituzione di una “casa famiglia” che ha dato eccellenti risultati, interventi per l’integrazione scolastica, il decentramento sul territorio dei servizi riabilitativi ed altro) lasciandone poi, dopo la fase sperimentale iniziale, la gestione alle Pubbliche Istituzioni. Purtroppo in alcuni casi quest’ultime non sono state in grado di mantenere i servizi istituiti, quale ad esempio la “casa famiglia” che in tempi recenti viene riproposta con il famoso “Dopo di noi”.

L’attuale Consiglio Direttivo della sezione AIAS di Firenze, che ho l’onore e l’onere di presiedere, non gestisce più i servizi in maniera diretta ma, sospinto dagli ideali del Prof. Milani, ha assunto, anche attraverso la propria partecipazione alla “Consulta Comunale degli invalidi ed handicappati” e al “Polo della Disabilità” fiorentino, compiti di collegamento fra esigenze dell’utenza e servizi forniti dall’Ente Pubblico, assicurando il controllo sulla continuità e sulla qualità dei servizi stessi.
In tale nuova veste esso ha raggiunto, grazie al prestigio maturato negli anni, il ruolo di guida fiorentina sui problemi della disabilità e si trova oggi a collaborare costantemente con l’Amministrazione Comunale e con le ASL, sia nell’organizzazione dei soggiorni estivi per soggetti disabili sia fornendo propri rappresentanti in molte delle commissioni di lavoro istituite per l’applicazione delle normative vigenti (Commissione Mista Conciliativa e Comitato di Partecipazione della ASL, Commissioni per i Parcheggi Personalizzati, per l’abbattimento delle Barriere Architettoniche, per l’utilizzo delle Nuove Tecnologie ed altre del Comune di Firenze).

Va riconosciuto al Prof. Adriano Milani Comparetti il ruolo di fondatore ed ispiratore di una nuova cultura sociale della disabilità che negli ultimi 50 anni si è radicata ed ha modificato profondamente il “comune senso del pudore” su queste problematiche, in primo luogo nei disabili stessi e nei loro famigliari.
Carlo Nesi (articolo pubblicato su Il nuovo anno 10 n°1)

mercoledì, maggio 10, 2006

L'impressionante cesura della nascita

“Tra la vita uterina e la primissima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere la impressionante cesura della nascità”: cosi si esprimeva Freud nel 1926 nell’ottavo capitolo del suo esteso lavoro: “Inibizione, sintomo ed angoscia”, che ha fornito un contributo fondamentale alla dottrina psicoanalitica.
Freud descrive l’angoscia del neonato come “automatica e traumatica”, dato che essa è il prodotto di uno stato di impotenza biologica e psichica, non essendoci ancora le capacità di padroneggiarne la scarica e ritiene che “la madre, la quale ha appagato fin dall’inizio tutti i bisogni del feto mediante le organizzazioni del suo corpo, prosegue la sua funzione in parte con altri mezzi anche dopo la nascita”[...] [e] “l’oggetto materno psichico sostituisce per il neonato la situazione fetale biologica”. Nella vita post-natale troviamo quella linea di sviluppo che trasforma questa angoscia originaria in angoscia-segnale di allarme attraverso l’esperienza dell’oggetto-madre presente-assente.
Questa dialettica individuale fra angoscia traumatica ed angoscia segnale accompagna tutta la durata della vita e, ad iniziare dalla “cesura” della nascita, costituisce l’elemento fondante dell’asse semiologico di ogni angoscia di separazione.
Con la parola “cesura” pensiamo al “taglio” del cordone ombelicale, alla “separazione”, al “distacco” ma anche al significato che essa ha nella metrica come pausa, interruzione, nel corso di un verso, di una poesia. In questo senso si può conprendere quella continuità che indubbiamente esiste fra il mondo in cui vive il feto e quel mondo nel quale si ritroverà a vivere dopo l’evento impressionante del parto.

Il bebé buttato fuori nello spazio infinito
Il feto, portandosi dietro tutta l’esperienza bio-psicologica che ha vissuto nell’utero, diventa quel neonato che “sventola la sua esistenza psichica” , come scrive Dina Vallino nel suo recente libro “Essere neonati “ (Ed. Borla). Vi è quindi un passaggio da una condizione psicofisiologica prenatale a una successiva neonatale, molto dipendente dalle condizioni ambientali ma provvista di un equipaggiamento sufficientemente maturo per mettere in funzione le già acquisite competenze . Va considerato che il bambino appena nato mentalmente è ancora un feto, è l’essere di prima in una situazione nuova, e non può all’improvviso cambiare la sua natura; infatti nei primi tempi di vita post natale assistiamo al suo bisogno di ritrovare molte sensazioni che aveva quando era ancora un feto dentro il corpo materno, come le posizioni del corpo, i contatti, il calore, ed altro ancora.
Per Esther Bick -la famosa psicoanalista a cui si deve l’approfondimento della metodologia dell’osservazione psicoanalitica continuata del neonato nella famiglia- comunque si consideri la nascita, il neonato è un bebè che è stato buttato fuori nello spazio infinito, che è senza gravità come un cosmonauta, che ha bisogno della “tuta spaziale”; inoltre questo bebè è passato dalla più intensa claustrofobia alla più grande agarofobia e mai più proverà così intensamente queste sensazioni.

La pelle tuta spaziale
Il neonato, come tutti i neonati, passa per queste angosce e dipenderà da come sarà tenuto subito dopo, dalle esperienze che farà con la sua mamma in tutti i vari momenti in cui verrà accudito, se potrà sentire di avere una sua “pelle-tuta”, un buon contenimento.
L’ipotesi lanciata da E. Bick è che il bambino molto piccolo sperimenta le parti della propria personalità come se non possedessero alcuna forma coesiva tra di loro, ma fossero tenute insieme passivamente ed in modo alquanto precario da una “pelle psichica” identificata con la pelle fisica.
Il bambino si sente in pericolo costante di spargersi fuori improvvisammente, di andare a pezzi, disperdersi in uno stato di non integrazione: è per questo che cerca un oggetto contenitore che lo faccia sentire trattenuto, tenuto insieme. Il primo oggetto contenitore è rappresentato dal capezzolo in bocca e da tutte le funzioni di holding della madre o del sostituto materno, funzioni che rafforzano questa pelle psichica.
Quando manca questo contenimento il piccolo neonato deve cercare in vari modi di tenersi insieme, attaccandosi ad uno stimolo sensorio-visivo-olfattivo o compiendo movimenti corporei continui, come serrare insieme dei gruppi di muscoli, e la ormai estesissima esperienza di Infant Observation ci ha dato tante testimonianze di questi comportamenti.

Dalla parte delle madri
Vista dalla parte delle madri, la nascita ha una sua preistoria che si dispiega in tutti quegli eventi mentali che si instaurano a partire dal momento in cui viene fatto il progetto-bambino e successivamente nel corso della gravidanza: essi costituiscono l’esperienza della maternità interiore.
L’interesse a comprenderla per preparare una atmosfera emotiva favorevole all’evento della nascita è oggetto di studi e ricerche nell’ambito psicoanalitico in relazione a quanto avviene al giorno d’oggi, in cui la gravidanza si trova sotto il dominio-controllo-monitoraggio biologico sempre più perfezionato di nuove metodologie finalizzate alla prevenzione ed al benessere fisico delle future mamme e del feto. Esse, che pure sono necessarie, rischiano infatti di sottrarre la mente materna alla necessità di mettersi in contatto continuo con il bebè “ pensato”, e quindi a non partecipare a quell’avventura vitale che riguarda i grandi cambiamenti costitutivi della identità. Conosciamo il ruolo che riveste oggi l’ecografia, che dà quella grande quantità di informazioni sulle condizioni del feto e sulle sue competenze, ma sappiamo anche che essa ha un suo ruolo intervenendo nella costruzione della vita fantasmatica della donna incinta, e provocando un passaggio mentale -a volte prematuro- dal “bambino immaginario” al feto-bambino reale, osservato nell’immagine ecografica.
La separazione biologica del parto trova il suo corrispettivo sul terreno psicologico nella disillusione derivante dall’inevitabile scarto che esiste fra il bambino immaginato, fantasticato, ed il neonato reale. Subito dopo il parto, quando la madre riceve il neonato fra le braccia, essa ha talvolta una comprensibile difficoltà ad avere una relazione con lui: è un estraneo, diverso dal “bambino della notte”, da quel bambino che è stato tanto sognato e desiderato.

“Nascita e infanzia di Giovannino”
In una lunga biografia del Pascoli scritta dalla sorella Maria e pubblicata postuma nel 1961, inizia in questo modo il capitolo: “Nascita e infanzia di Giovannino”, cioè del poeta, che era nato il 31 dicembre del 1855, quarto figlio di Caterina e Ruggero: “La sua nascita rimase ricordevole per un gran piangere che fece su lui la sua mamma appena lo ebbe tra le braccia, perché gli scorse una piccola imperfezione nel dito mignolo del piede destro, consistente in una eccessiva larghezza dell’ultima falange”.
Riprendendo a riflettere sul bebè appena nato, ci risulta ben comprensibile la metafora della “tuta spaziale”: sappiamo molto oggi sulla vita del feto rinchiuso nel suo mondo, in un ambiente che ha una sua continua e costante omogneità, la quale crea un insieme di sensazioni vissute che lo protegge come una vera “barriera” verso gli stimoli esterni ed interni, sempre che essi non superino una certa soglia.
Dopo il passaggio dalle strette vie vaginali, uscito dal ventre materno -ed è una ben dura prova da sperimentare- il neonato comincia a farsi sentire con un vagito, un grido più o meno forte, più o meno prolungato: è l’atto necessario per l’aprirsi dei suoi polmoni ed una reazione al dolore fisico.
È il segnale forte che è nato, che è vitale, e per la madre, che durante la fase espulsiva è stata in vario modo invasa da un afflusso imponente di rappresentazioni mentali, il grido del suo neonato prima ancora di vederlo è il segnale emozionante e rassicurante della presenza del figlio; questo per lei e per il padre, se è presente anche lui. Nella sala parto circolano gioia e soddisfazione fra gli operatori, l’ostetrica, il ginecologo, e se ci fosse presente anche un osservatore recettivo e partecipe, in quel momento potrebbe aggiungere un altro significato al grido del neonato, interpretandolo, ovverosia sentendolo come l’espressione di grande stupore e meraviglia in preda alla emozione violenta provocata in lui dal cambiamento improvviso e inaspettato delle sue sensazioni.

La nascita psichica
Ma lo scenario della nascita psichica non è ancora completo. Se seguitiamo ad osservare quel bambino appena nato vediamo presto i piccoli movimenti della sua bocca, movimenti che esprimono la sua ricerca di un oggetto. Quando poi viene messo al seno, sperimenta la sua attività di suzione, il senso di esistere, e cosi mentre succhia ed è tenuto al caldo fra le braccia, soddisfa contemporaneamente la sua oralità ed il suo bisogno di fusionalità (Vallino).
Un altro momento essenziale può verificarsi, una manifestazione che può passare inosservata o non essere appprezzata nel suo significato particolarmente relazionale e profondo: dopo i primi vagiti -ed a volte anche prima di questi- il neonato può aprire gli occhi, spalancarli con le pupille dilatate, tanto da sembrare uno sguardo intenso dritto davanti a sè.
Non ci si domanda se vede, conosciamo le sue deboli e vaghe capacità percettive, ma se questo tipo di “sguardo” incontra lo sguardo della madre, se avviene un contatto fra i due sguardi, questo provoca un intensa ed indimenticabile commozione nella madre, e rappresenta una funzione importante nella costituzione del legame tra il bebè e la madre, ed anche fra il bebè ed il padre, se anche lui è chiamato a parteciparvi.
La precocità di questo “sguardo” che un gruppo di studiosi, appartenenti all’Associazione Francese di Maternologia -settore di studi tutto dedicato alla maternità psichica- ha definito in modo poco traducibile: “ Le lever natale des yeux” per distinguerlo dallo sviluppo successivo dello sguardo esplorativo e di ricerca del bambino dopo il primo mese di vita, ha per loro la funzione di creare fin dalla nascita un’atmosfera genitoriale ed un clima di “amore a prima vista”, e ritengo che il loro assunto si possa pienamente condividere.
Gli studi sulla osservazione del neonato nella sua famiglia hanno sempre mostrato come i genitori si sentano ricercati, desiderati, riconosciuti dagli sguardi sempre più attenti dei loro bebè, via via che passano i primi mesi, ed essere “guardati” dagli occhi dei genitori è indispensabile per il bebè al fine di sentirsi esistere nella loro mente.
Indubbiamente dobbiamo fare più attenzione alla comparsa precoce di questa apertura degli occhi, che è certamente legata ad un livello di maturazione neurofisiologica, ma se essa trova una risposta nello sguardo della madre (o del padre) è annunciatrice di quella reciprocità del senso di esistere per l’altro, il senso primario che rinforza emotivamente quella relazione che si stabilisce col contatto corporeo e con quello fra il capezzolo e la bocca.

“Ci siamo guardate”
Per concludere sull’osservazione di questo complesso scenario della nascita, ricordo una mia esperienza :
Una giovane signora era venuta a cercarmi, incinta al terzo mese di gravidanza: era in preda ad una grande agitazione e confusione, da poco tempo erano avvenuti tanti, troppi cambiamenti nella sua vita, uno dopo l’altro. Abbiamo iniziato un lavoro insieme e questa gravidanza ha avuto momenti di crisi che sono stati via via affrontati e superati, mentre emergevano segnali indicatori di futuri momenti depressivi; il tempo era veramente poco per cercare di prevenirli. Siamo giunti allo scadere del tempo, e pochi giorni dopo ricevo una telefonata. Era lei che con voce commossa mi comunicava che la bimba era nata, era grande, lunga, che era stata aiutata bene, e -dopo una pausa- che le avevano subito messo la bimba addosso e l’aveva vista con gli occhi aperti che la guardava: “ci siamo guardate!” esclama, e mi rendo conto che sta piangendo.
E’ tornata molto presto da me portandomi la sua bimba. Cosi le ho potute guardare anch’io. e negli incontri successivi, quando emergeva la depressione c’ è sempre stata una bimba attratta dal volto della mamma, intenta a guardarla e lei a ricordare il primo sguardo ed a sentirsi una buona mamma ricercata che ha potuto allattare la sua bimba e farla crescere vicino a lei.
Ho pensato di aver fatto una bella esperienza anch’io, non solo di una terapia madre-bambino ma anche di una terapia condotta con la collaborazione della stessa bimba, la quale ha fornito il suo sguardo che ha avuto una funzione terapeutica, cosi importante per mantenere il legame e non farlo rompere dall’irruzione della depressione. I bambini possono essere buoni terapeuti per i loro genitori!
Ho iniziato a parlare di cesure ed ho finito per parlare di legami, di unioni.
Gina Ferrara Mori (articolo pubblicato su Il nuovo anno 10 n° 1)
Da un intervento all’incontro su “La Nascita”, Firenze, Sala Magliabechiana degli Uffizi, 16 dicembre 2005.

domenica, maggio 07, 2006

La semeiotica neuroevolutiva

Nonostante gli enormi progressi degli ultimi 20 anni nelle tecniche di neuroimmagine e di neurofisiologia, che consentono una sempre maggiore definizione diagnostica e prognostica delle lesioni del SNC sia a livello fetale, che neonatale e del lattante (Levene et al, 2001), la valutazione clinica neuroevolutiva mantiene il suo ruolo centrale per personalizzare il giudizio diagnostico e prognostico e guidare l’intervento assistenziale abilitativo e riabilitativo. Il lungo percorso di studio, ricerca clinica, ipotesi interpretative e proposte semeiotiche di Adriano Milani Comparetti ed Anna Gidoni (1967, 1971, 1976, 1978), rappresenta tutt’oggi una solida base per tutti gli operatori impegnati in questo settore. In particolare consente una valutazione critica delle molte proposte di esame neurologico fetale, neonatale e del lattante oggi esistenti, all’interno di una specifica cornice interpretativa fondata sui concetti della medicina della salute, della semeiotica della normalità e del profondo rispetto per il bambino, il suo protagonismo e la sua forza autopoietica.

La motricità fetale
Ricordo come un punto particolarmente rilevante di questo percorso fu la scoperta della motricità fetale, resa possibile dall’incontro con gli ostetrici Ianniruberto e Tajani di Terlizzi nella seconda metà degli anni ’70, che ebbe almeno tre effetti fondamentali in questo percorso:
1. La conferma delle ipotesi sul significato funzionale del comportamento motorio neonatale, che Milani e Gidoni avevano già proposto di differenziare in funzioni propriamente fetali (locomozione fetale e propulsione, servite per trovare la giusta presentazione e partecipare attivamente al travaglio), quelle necessarie alla sopravvivenza neonatale (Moro, grasp e competenze motorie per l’alimentazione) e quelle emergenti per le funzioni di vita extrauterine (primo tra tutti il controllo assiale antigravitario). Ciò ha portato alla interpretazione funzionale della motricità funzionale fetale (Milani Comparetti, 1981), ipotesi che oggi trova sempre più sostenitori, ha rinforzato il riconoscimento della partecipazione attiva del feto nel determinismo del travaglio e del parto e quindi le raccomandazioni per la valutazione prenatale della salute fetale e la prevenzione del danno ipossico-ischemico perinatale.
2. La consapevolezza che lo sviluppo motorio non avviene per graduale maturazione di movimenti dapprima grossolani o poco specifici, bensì attraverso la precoce produzione endogena di pattern motori geneticamente determinati (meccanismi di autopoiesi e feed-forward), già tutti disponibili a 20 settimane di età gestazionale e chiamati pattern motori primari, e la loro successiva utilizzazione funzionale, secondo un meccanismo modulare epigenetico, fino alle “funzioni delle funzioni motorie” nella funzione comportamentale che a sua volta si propone nell’interazione relazionale e sociale. Su ciò si fonda la nuova proposta semeiotica del 1982 (vedi sotto).
Come ricordava Milani (1985) poi, “la modularità e l’epige¬nesi sono riconoscibili ben oltre il solo siste¬ma della motricità e riguardano anche i siste¬mi percettivo, emotivo, cognitivo e anche interattivo. È anzi legittimo allargare il campo della modularità epigenetica anche a categorie dell’essere come la coscienza, l’inconscio, il rapporto io-mondo e io-tempo, il doppio statuto soggetto-oggetto del corpo e tante altre. Tutto questo repertorio innato è evocabile dall’esperire epigenetico secondo il modello interattivo”.
3. L’origine fetale dell’essere persona e dell’appartenenza al mondo, basata sull’ipotesi che nella continuità dello sviluppo l’origine della persona, così come della relazione, è prenatale (Milani Comparetti, 1985). Ciò fu al centro di fertili incontri e discussioni multidisciplinari negli anni ’80, con psichiatri, psicoanalisti, psicologi e filosofi della scienza, che ispirarono i suoi ultimi lavori tra cui l’ultimo, uno dei più belli ed intensi, sull’origine dell’essere persona ed il segreto del neonato (Milani Comparetti, 1986).

Un punto di arrivo
L’ultima proposta di semeiotica neuroevolutiva di Milani Comparetti (1982), costituisce il punto di arrivo di questo percorso, fondato su un’impostazione concettuale che è stata un modello di riferimento anche per nuove proposte che si sono arricchite via via di nuovi aspetti. Essa differenzia la valutazione della motricità non funzionale (pattern motori primari) da quella con significato funzionale (automatismi primari e secondari), la modulazione del comportamento e gli aspetti relazionali, privilegiandone gli aspetti qualitativi. Gli stessi assi di valutazione possono essere utilizzati nel corso dei primi mesi ed anni di vita arricchendoli via via delle competenze funzionali proprie delle varie età.
La semeiotica neuroevolutiva si differenzia dalla semeiotica neurologica tradizionale, anche dalle proposte più recenti (Mercuri et al, 2005; Dubowitz et al, 2005; Gosselin et al, 2005), per alcuni aspetti:
a) Il privilegio per la valutazione di funzioni dello sviluppo del S.N.C. (la semeiotica tradizionale dei riflessi e del tono, che non sono espressione di funzioni evolutive, ha una sua utilità in un’ottica di diagnostica lesionale o come completamento diagnostico in quadri patologici periferici).
b) La valutazione di tre aspetti del SNC con diverso significato: lo stato attuale, il potenziale evolutivo e la modificabilità. Il primo consentirà prevalentemente di formulare un’ipotesi diagnostica e quindi una prognosi ad essa collegata (prognosi della malattia). Il secondo, che privilegia l’esame delle funzioni dello sviluppo e dei suoi precursori, avrà innanzitutto un potenziale prognostico. Il terzo infine, oltre che un potenziale prognostico, rivestirà implicazioni per interventi di tipo abilitativo e riabilitativo.
c) Il privilegio per la ricerca e la valutazione della normalità. Un giudizio sul potenziale di sviluppo del bambino, cioè la prognosi di sviluppo (prognosi del bambino), si fonda sulla valutazione della prevalenza o meno nel tempo della normalità nell’uso funzionale del repertorio (semeiotica della normalità e prognostica, più che della patologia e diagnostica).
e) L’esame delle proposte e non delle risposte del bambino a stimoli, dando priorità alla osservazione dei comportamenti spontanei del bambino all’interno della relazione che, in condizioni ottimali, è sufficiente a consentire un esame neuroevolutivo completo. Una caratteristica fondamentale del processo di sviluppo è il protagonismo dell’essere vivente che “si proietta nel mondo e crea se stesso con la propria competenza propositiva”.

Studi recenti
Questa proposta semeiotica è stata da noi successivamente modificata (Rapisardi, 1994, 1999) aggiungendo l’asse di valutazione neurovegetativo, con la ricerca dei segni di stabilità ed instabilità di esso secondo le proposte di Brazelton ed Als (Brazelton and Nugent, 1997; Als, 1982), e con l’integrazione della valutazione della qualità del movimento generalizzato quale aspetto prioritario della motricità non funzionale fino a 4-5 mesi di età post-termine. Quest’ultimo metodo di valutazione, proposto da Prechtl e successivamente validato da vari studi (Prechtl, 1990; Prechtl et al, 1997; Cioni et al, 1997, 2003; Guzzetta et al, 2003), possiede un notevole valore diagnostico e prognostico della patologia neurologica perinatale.
La semeiotica neuroevolutiva è una metodica semplice e non invasiva che può essere utilizzata da diversi specialisti; mira a cogliere i punti di forza e le eventuali difficoltà del bambino e dei suoi genitori nell’accudimento, sia nei casi di normalità che in quelli patologici, da poter poi utilizzare nell’intervento mirato a sostenere e promuovere lo sviluppo psicomotorio all’interno della famiglia. L’intervento è centrato sul sostegno delle competenze genitoriali e sulla promozione di quelle di auto-organizzazione neurocomportamentale del bambino mediante l’arricchimento dell’ambiente in cui il bambino vive e si sviluppa, secondo i principi della family centered developmental care (Harrison, 1993).
Gherardo Rapisardi (articolo pubblicato su Il Nuovo anno 10 n°1)

venerdì, maggio 05, 2006

Riflessioni in tema di paralisi cerebrale infantile

Nella paralisi cerebrale infantile (PCI), il termine “paralisi” indica la forma delle funzioni messe in atto da un soggetto, il cui sistema nervoso centrale (SNC) è stato leso in modo irreparabile, per rispondere alle richieste dell’ambiente (Ferrari, 1990). La paralisi non rappresenta cioè la somma dei difetti e dei deficit posseduti da organi, apparati e strutture, in ambito sia centrale sia periferico, ma costituisce il diverso assetto di funzionamento (computazione), la diversa modalità di “ri”-organizzazione ed azione (coerenza) di un SNC che continua a cercare nuove soluzioni all’esigenza interna di divenire adatto e al bisogno esterno di adattare a sé il mondo che lo circonda (Ferrari, 1993).
L’idea che la paralisi come “forma delle funzioni” non rappresenti la diretta conseguenza della lesione, ma costituisca piuttosto l’espressione della ri-organizzazione dell’intero SNC, è sostenuta dal fatto che tra sede, natura ed entità della lesione da un lato, e manifestazione clinica di PCI dall’altro, non esistono che generiche correlazioni. A parità di neuroimmagini (TAC, RMN), infatti, possiamo osservare forme cliniche di PCI significativamente differenti fra loro; viceversa, bambini assimilabili sotto il profilo sia motorio che percettivo possono possedere storie lesionali assai diverse. Per chiarire ogni eventuale dubbio in proposito basta considerare che almeno la metà dei soggetti con emiplegia congenita mostra alle neuroimmagini lesioni emisferiche bilaterali (Cioni, 1999).
Questo diverso modo di interpretare la PCI ne influenza necessariamente anche gli aspetti tassonomici. L’architettura di fondamentali funzioni adattive quali il controllo posturale, la deambulazione e la manipolazione, piuttosto che la distribuzione topografica del difetto motorio (tetraplegia, diplegia, emiplegia) combinata a sintomi guida come flaccidità, spasticità, distonia ed atassia, deve stare, infatti, alla base dei criteri classificativi adottati per inquadrare le diverse sindromi della PCI. Le differenti forme cliniche (i vari tipi di tetraplegia, diplegia ed emiplegia) non sono semplicemente un’espressione diretta del danno strutturale, cioè dell’eziologia, della patogenesi e del timing della lesione, ma costituiscono piuttosto la manifestazione riconoscibile del percorso seguito dal SNC nel processo di “ri”costruzione delle funzioni adattive, portato tenacemente avanti nonostante la presenza inemendabile della lesione.


Per funzione intendiamo la relazione dinamica interattiva che intercorre tra il mondo intrapersonale di ciascun individuo e il suo mondo extrapersonale o contesto, a sua volta composto di collettività ed ambiente (Manifesto per la riabilitazione del bambino, Roma 2000). Questa relazione dinamica esprime l’insieme delle soluzioni operative messe in atto dal SNC del soggetto per soddisfare un determinato bisogno, biologicamente significativo per lui in quel definito periodo della vita.
L’aggettivo “adattivo” precisa che la funzione considerata, pur essendo necessariamente diversa dal normale in quanto prodotta da un SNC leso, risulta vantaggiosa per l’attore, idonea allo scopo ed adeguata al contesto in cui viene esercitata.


Le funzioni motorie più adatte per l’inquadramento tassonomico delle diverse forme cliniche di PCI, almeno nelle sindromi spastiche, sono costituite dalla:
- funzione antigravitaria (organizzazione della postura) per le tetraplegie
- funzione locomotoria (cammino maturo) per le diplegie
- funzione manipolativa e prassica per le emiplegie (Ferrari, 2005).
In termini di outcome, infatti, poiché non tutti i bambini tetraplegici possono raggiungere la posizione seduta autonoma e la stazione eretta anche assistita, l’architettura della postura può essere considerata la funzione da esplorare più rilevante ai fini della classificazione di queste forme di PCI e della misurazione dei risultati ottenuti mediante il trattamento rieducativo. Tutti i bambini diplegici, viceversa, possono arrivare al cammino (anche se qualcuno di loro finisce successivamente per perderlo o per abbandonarlo), ma con modalità ed assetti (pattern locomotorio, ortesi, ausili) estremamente differenti. L’architettura della marcia può costituire perciò un elemento abbastanza significativo per distinguere fra loro le diverse forme cliniche della diplegia e soprattutto per dirigere strategie e strumenti del trattamento rieducativo. Lo stesso criterio potrebbe valere anche per i soggetti emiplegici, come ha già dimostrato il gruppo di Winters (1987), ma poiché nessun bambino emiplegico incontra difficoltà nella acquisizione spontanea della statica e della marcia, è a nostro avviso più significativo classificare le forme cliniche di emiplegia infantile andando ad analizzare l’architettura della funzione manipolativa e prassica.
Una classificazione basata sull’analisi dell’architettura di funzioni motorie di base quali controllo posturale, locomozione e manipolazione risponde sicuramente in pieno al dettato della definizione internazionale di PCI tuttora in vigore “turba della postura e del movimento” (Bax, 1964), ma perché essa possa essere ugualmente efficace per la costruzione del progetto terapeutico e per la misurazione dei risultati raggiunti con il trattamento rieducativo occorre che la valutazione della funzione guida non sia limitata agli elementi puramente motori (moduli, prassie ed azioni), ma estesa agli aspetti sensoriali (sensazioni, percezioni e rappresentazioni) ed intenzionali (capacità, abilità e pulsioni) (Ferrari, 2005).

Postura: definita relazione reciproca fra i segmenti che compongono il corpo valutata in un dato istante in relazione allo spazio circostante. Movimento arrestato (congelato).
Movimento: spostamento nello spazio e nel tempo di uno o più segmenti del corpo o di questo nel suo insieme. Passaggio da una postura ad un’altra.


Postura: definita relazione reciproca fra i segmenti che compongono il corpo valutata in un dato istante in relazione allo spazio circostante. Movimento arrestato (congelato).
Movimento: spostamento nello spazio e nel tempo di uno o più segmenti del corpo o di questo nel suo insieme. Passaggio da una postura ad un’altra.


In ciascuna forma clinica di PCI, lo sviluppo delle funzioni adattive segue una propria logica coerente (storia naturale) dettata dal combinarsi di fattori centrali (componenti top down), quali erano per Milani Comparetti (1978) le diarchie, comuni a tutti i soggetti con la stessa sindrome e della stessa età ed il più delle volte immodificabili, fattori periferici (componenti bottom up), propri dell’apparato locomotore (AL) e non necessariamente identici fra soggetto e soggetto, e strategie individuali (coping solutions), prestazioni assai diversificate, ma spesso riproducibili, che il singolo paziente ha trovato col tempo per “potersela cavare meglio” (Ferrari, 2005). L’architettura della funzione è costituita dalla somma degli elementi centrali, periferici ed individuali.
Nel bambino con PCI, l’influenza reciproca dei fattori utilizzati nella costruzione di una funzione adattiva risulta riconoscibile in modo tanto più chiaro quanto più grave è l’espressione clinica della sua paralisi.
Per semplificare la comprensione degli elementi centrali, o fattori top down, possiamo immaginare che nella costruzione di una funzione adattiva i diversi tipi di prestazione motoria fungano da ingredienti potenziali, mentre le ricette utilizzate nel metterli assieme rivelino le modalità operative seguite dalla struttura organizzatrice.
Appartengono alla sfera delle prestazioni tutte le condotte motorie del paziente: dal repertorio dei moduli alle sinergie, partendo dal più basso livello di integrazione, il riflesso monosinaptico, per giungere a quello più alto, il gesto specializzato, passando per le reazioni, i pattern motori primari, gli automatismi secondari, secondo un idea già proposta da Milani (1982). Sono invece propri della struttura organizzatrice i processi di raccolta ed elaborazione delle informazioni, di confronto ed integrazione delle sensazioni in percezioni, di riconoscimento ed archiviazione delle percezioni in rappresentazioni e di elaborazione di queste in vissuti, la capacità di controllo simultaneo e sequenziale; la possibilità di rendere automatici gli schemi percettivo-motori che stanno alla base delle prestazioni più ripetute; la memoria in tutte le sue forme e soprattutto la capacità di apprendimento, di acquisizione e di generalizzazione di quanto conquistato.
I difetti ed i deficit degli elementi top down rappresentano la parte meno emendabile della paralisi. I fisioterapisti chiamano tuttora “trattamento prognostico”, secondo il lessico di Milani (1985), la misura della possibilità concessa al bambino, guidato terapeuticamente attraverso opportune facilitazioni, di poter ri-organizzare la funzione adattiva deficitaria modificandone l’architettura (selezione degli ingredienti e scelta delle ricette).

Apprendimento: funzione geneticamente programmata che permette la conquista di abilità geneticamente non previste attraverso l’esposizione ad esperienze significative più o meno ripetute (Milani Comparetti, 1982).
Apprendimento motorio: insieme di processi associati con l’esperienza che conduce a cambiamenti permanenti nella capacità di effettuare determinati compiti motori (Schmidt, 1991).

Apprendimento: funzione geneticamente programmata che permette la conquista di abilità geneticamente non previste attraverso l’esposizione ad esperienze significative più o meno ripetute (Milani Comparetti, 1982).
Apprendimento motorio: insieme di processi associati con l’esperienza che conduce a cambiamenti permanenti nella capacità di effettuare determinati compiti motori (Schmidt, 1991).


A fronte delle componenti “centrali”, nella PCI, non diversamente da quanto avviene in altre malattie disabilitanti dell’infanzia, l’AL esprime proprie caratteristiche “periferiche” di cui il SNC deve tener conto nella costruzione delle funzioni adattive: sono le componenti bottom up. Alcune di queste caratteristiche, come le deformità secondarie, sono la conseguenza diretta degli errori compiuti dal SNC, amplificati dalla crescita somatica, altre come le caratteristiche strutturali del muscolo, del connettivo ed in parte dell’osso, sono diretta conseguenza della lesione ma non della paralisi (Dan, 2004).
Nella costruzione delle funzioni adattive, fra SNC ed AL avvengono continui condizionamenti reciproci. Il SNC del soggetto è perciò largamente influenzato anche dalle caratteristiche strutturali dell’AL che esso stesso ha contribuito a modificare, sia primitivamente con la crescita e la tipizzazione dei tessuti, sia secondariamente attraverso l’esercitazione della motricità patologica.

Il terzo fattore da considerare per comprendere l’architettura della funzione è costituito dalle strategie individuali (coping solutions) che il bambino mette in atto per potersela “cavare meglio” e che, in quanto performance individuali, non si prestano ad un inquadramento generale. Gli elementi bottom up e soprattutto le coping solutions sono responsabili delle differenze inter-individuali, comunque apprezzabili, che si osservano fra i soggetti che appartengono ad una stessa forma clinica di PCI e sono ampliamente influenzabili dalla terapia rieducativa, che dovrebbe saper cogliere dagli individui più abili i “trucchi” migliori per poterli insegnare a quelli meno dotati.

All’idea biologica che la PCI sia una paralisi dello sviluppo (semeiotica dei difetti inemendabili) deve contrapporsi immaginificamente il concetto neuro-psico-biologico dello sviluppo della paralisi (Ferrari, 1988) come forma di una nuova relazione dinamica che l’individuo cerca “comunque” di costruire con l’ambiente che lo circonda (semeiotica delle risorse residue). Se si comprendono le regole di questo processo, nella PCI studiando i comportamenti del passato (storia naturale) e del presente (diagnosi) si potranno ragionevolmente prevedere le condotte del futuro (prognosi) e definire gli obiettivi possibili per la terapia rieducativa (modificazioni migliorative, oggettive, permanenti e misurabili delle funzioni adattive). Nel trattamento della PCI le diverse proposte terapeutiche (fisioterapia, farmaci, ortesi, chirurgia funzionale) per essere efficaci devono sapersi cioè sintonizzare sulla “auto ri-organizzazione” del SNC del bambino, seguendone la logica interna, per deviare stabilmente l’organizzazione delle funzioni espresse nella direzione ritenuta più vantaggiosa. Per ottenere questo risultato occorre però riuscire a superare prima di tutto l’idea è che la fisioterapia debba attingere i propri strumenti terapeutici dallo sviluppo del bambino normale per trasferirli, lasciandoli possibilmente tali, al soggetto patologico. Poiché il bambino con PCI non può apprendere normalmente (anche l’apprendimento, in quanto funzione, risulta necessariamente compromesso) e non può apprendere la normalità, perché essa è estranea al repertorio delle sue risorse residue, la normalità non può costituire né lo strumento né lo scopo del nostro agire terapeutico. Se concordiamo con l’affermazione che la paralisi rappresenta la forma delle funzioni messe in atto dal SNC del soggetto per rispondere ai propri bisogni, le nostre proposte terapeutiche dovranno essere coerenti con l’architettura della funzione considerata, che resterà in ogni caso una funzione diversa e più o meno alterata, anche se in modo funzionalmente meno grave per merito del nostro intervento terapeutico. All’interno dell’architettura della funzione, alcuni elementi sono modificabili più o meno facilmente ed altri non lo sono per niente. Il margine di modificabilità della funzione, e non la gravità della paralisi, dovrà idealmente costituire la misura del possibile in riabilitazione ed essere posto alla base della presa in carico del bambino con PCI e del contratto terapeutico stipulato con la sua famiglia. Oltre alla modificabilità dell’architettura della funzione, altri due elementi sono indispensabili per l’agire terapeutico: la presenza di una residua capacità di apprendimento (è l’apprendimento e non il movimento a costituire l’esatto opposto del concetto di paralisi) e la motivazione del soggetto, ovvero il suo interesse, la sua partecipazione e la sua voglia di cambiare, in sostanza la propositività di cui ci parlava Milani (1981).
La fisioterapia è una forma di insegnamento che presuppone, reciprocamente, da parte del bambino una conservata capacità di apprendimento. Diverse sono le modalità di apprendimento delle funzioni adattive (per tentativi ed errori, per imitazione, per istruzione diretta, per problem solving, per via cognitiva, per catastrofe, ecc.); altrettanto specifiche dovranno essere le modalità di insegnamento adottate in fisioterapia, che occorrerà saper selezionare in base ai meccanismi di apprendimento rimasti accessibili al paziente.
La terapia deve produrre una modificazione stabile e migliorativa della capacità di agire del paziente: perché un intervento possa essere considerato terapeutico occorre che all’interno della libertà di scelta concessa dalla patologia sia riconoscibile la selezione operata dal soggetto (esperienza), in relazione alle regole stabilite dal terapista (guidata) e che il compito assolto ed il risultato conseguito siano importanti per il bambino (significativa) in modo da meritare di essere conservati e riprodotti (Ferrari 1997).
In questa direzione un aspetto da rivedere è l’idea che il problema della PCI sia prevalentemente motorio (prima “dimensione” della paralisi) e che la fisioterapia si debba occupare principalmente, se non esclusivamente, di movimento. La rieducazione delle componenti percettive (seconda “dimensione” della paralisi) costituisce almeno metà del problema rieducativo ed esige soluzioni estremamente differenziate fra loro, dal momento che i difetti presenti possono essere molto diversificati: la mancata raccolta d’informazioni alla periferia o la loro intollerabilità (sensazioni), ad esempio; l’insufficiente attenzione o l’incoerenza fra i diversi apparati implicati nella costruzione delle percezioni; gli errori commessi a livello di anticipazione (copia collaterale) che conducono a rappresentazioni errate cui consegue il mancato consenso al movimento e quindi la rinuncia all’azione, ecc.
Accanto agli aspetti motori ed a quelli percettivi la terza “dimensione” della paralisi è costituita dall’intenzionalità e in questo settore la terapia può solo far emergere gli interessi del bambino agendo opportunamente sul contesto ed offrendogli adeguati modelli operativi. Il setting terapeutico acquista perciò in riabilitazione un preciso significato: il luogo costituisce una facilitazione all’azione (occasioni e possibilità come attività potenziali, Van der Meer 1999), gli oggetti in esso contenuti una facilitazione al loro impiego più appropriato (Fadiga, 1999), le regole imposte all’azione una facilitazione al suo divenire adattiva (scopo, individuo, ambiente fisico, contesto sociale, sfera culturale), il modello offerto con il comportamento del fisioterapista una facilitazione al come progettare e pianificare l’azione (Kholer, 2002).

La riabilitazione della PCI ne esce “riabilitata” (Milani, 1980). Infatti la riabilitazione non costituisce una vera cura ma una forma di educazione, il più delle volte non corregge alcuna lesione ma produce ugualmente nel paziente importanti cambiamenti, non cancella i difetti e neppure cerca di nasconderli, ma si adopera per sviluppare idonei compensi o adeguate supplenze, non conduce alla normalità ma sa adattare reciprocamente individuo, comunità ed ambiente allo scopo di rendere nuovamente possibili interazione, integrazione ed indipendenza (Ferrari, 1997), o, quando ciò non sia possibile, almeno autodeterminazione, rendendo il bambino con PCI protagonista del processo del proprio recupero, proprio come ci aveva raccomandato Adriano Milani (1976).
Adriano Ferrari (articolo pubblicato su Il nuovo anno 10 n° 1)

lunedì, maggio 01, 2006

Cure intensive in età perinatale: esiste un limite?

La scelta assistenziale di neonati con condizioni mediche incurabili è stata definita “l’area più difficile della pratica pediatrica” (RCPCH, 1997). Nelle età gestazioni estremamente basse, al di sotto delle 26 settimane, l’eticità delle decisioni di trattamento è un argomento molto dibattuto e rappresenta, a tutt’oggi, una delle aree più complesse della medicina perinatale e neonatale. Non solo gli studi sulla sopravvivenza e morbilità sono insufficienti e spesso non confrontabili, ma la maggior parte delle tecniche assistenziali, delle opzioni terapeutiche, farmacologiche e non, dei protocolli diagnostici e terapeutici su madre e feto/neonato non sono suffragati da dati clinici sperimentati.
Pochi studi randomizzati e controllati sono stati condotti per identificare gli approcci ottimali all’assistenza alla madre ed al neonato in queste fasce estreme di età gestazionale e non esistono protocolli in grado di aiutare il medico a formulare piani di trattamento uniformi.
Ci sono enormi aree di incertezza ed anche di completa ignoranza scientifica che precludono un’assistenza ottimale basata sull’evidenza (Higgins, 2005). La lista delle conoscenze mancanti che sono considerate necessarie e prioritarie per la valutazione ed il trattamento di questa popolazione di madri e neonati è incredibilmente lunga e oggetto di articoli, frutto di lavori il cui unico scopo è semplicemente indicare la necessità, la priorità di tali studi e raccomandarne l’esecuzione.
Il tipo di rianimazione cui sottoporre questi bambini, per esempio, semplicemente estrapolata da quelli più grandi, gli effetti a lunga scadenza dei farmaci usati nel neonato o in sua madre, la quantità e la qualità dei liquidi da infondere, a quali curve di crescita riferirsi, l’utilizzo di farmaci cardioattivi, anticonvulsivanti, analettici…, quale e quanto latte usare per la nutrizione, quali siano i corretti dosaggi degli antibiotici, sono tutti o quasi campi in cui mancano anche le più elementari evidenze, le cui risposte sono generalmente solo estrapolazioni di ricerche sugli adulti e sui bambini più grandi. E questo solo per fare degli esempi. In conseguenza di tale enorme ignoranza scientifica, la maggioranza delle decisioni riguardanti l’ assistenza di tali madri e di tali neonati sono empiriche, basate su piccolissime serie di casi, sull’opinione di esperti e su esperienze pratiche di singoli.
Tale situazione assistenziale configura il caso della sperimentazione più che un approccio moderno, scientificamente valido, universale e basato su studi controllati, quello della moderna medicina basata sull’evidenza.

“..È necessario che i neonatologi informino la comunità di quello che possiamo o non possiamo fare: dopotutto NICU sta per intensive “care” unit e non intensive “cure” unit”, scrive nel 1999 Koh, neonatologo australiano. Silverman, 2004, sostiene che “i neonatologi sono diventati i guardiani autonominatisi dei diritti dei neonati ai confini della capacità di sopravvivenza e che questo loro potere di prendere decisioni sui bambini sta scavalcando i competenti diritti delle famiglie e della società” e domanda un piano di inchiesta nazionale per verificare se “l’opportunismo abbia preso il posto della compassione” nelle unità di cure intensive neonatali del suo paese.
Lorenz, 2004, enfatizza il concetto che i genitori sono i tutori legali del bambino e l’importanza della loro libera decisione e, quindi, la questione più importante diventa come i medici possano fornire al meglio consulenza ai genitori in un modo che sia chiaro, accurato, consistente col problema e che non indichi già, eccessivamente, una via di comportamento.
Non meno importante, nel dibattito internazionale, è il vissuto dei genitori “quello che i medici definiscono handicap minore può essere devastante per il bambino e per la sua famiglia. I futuri genitori lo devono sapere. Mio figlio ha un lieve ritardo mentale, una lieve paralisi cerebrale, un lieve danno visivo…in alcuni studi è considerato portatore di handicap minori. A dispetto dell’ottimismo dei suoi primi follow up, 21 anni più tardi, i suoi cosiddetti “lievi problemi”, in combinazione, gli rendono impossibile vivere autonomamente” (Harrison,1999).
O ancora “Non è un esperimento la vita di Andrew? Andrew è interessante per loro in un qualche modo distaccato… il loro proprio, privato progetto di ricerca…” (Stinson, 1993). In certi casi astenersi dall’accanimento terapeutico può significare “limitare le cure intensive”, dopo una attenta valutazione della prognosi e delle possibilità del bambino, nell’intento di agire per il suo vero interesse.

Ma chi tra i medici tende a limitare le cure: i medici più anziani, con maggior esperienza, quelli che hanno anche esperienza di follow-up successivo, quelli che si considerano meno “religiosi”(Cuttini, 2000). Fatto sta che è stato riportato (Sanders, 1995) come un terzo dei neonatologi intervistati al riguardo, dichiari che, nelle stesse situazioni, “tratterebbe meno aggressivamente il proprio figlio”; e tale dichiarazione è di estrema importanza. Infatti, se, estrapolando da un pensiero di Jonas, filosofo tedesco, che ricondurrebbe ai soli medici l’essere oggetto delle sperimentazioni, in quanto unici ad essere pienamente consapevoli e liberi nella scelta di sottostarvi o di rifiutarsi, pensiamo che solo i medici comprendano veramente i veri risvolti di una scelta assistenziale aggressiva, ancor più, tale affermazione assume importanza decisiva. D’altra parte, scrivono i canadesi, “la capacità della moderna medicina e della tecnologia di prolungare la vita è adesso così avanzata che vi è il reale pericolo che il prolungamento di questa diventi l’unico fine, senza rispetto per la rovina che tale azione può provocare in altre persone o per i veri e desiderabili scopi che essa dovrebbe avere”(CPS, 2000).

Ed ancora, riportando una recente riflessione di un grande neonatologo inglese: “lo scopo della neonatologia deve essere migliorare la prognosi dei bambini nati vivi, piuttosto che cercare, ad ogni costo, di far sopravvivere i piccolissimi”(Levene, 2004). Quello che ci deve guidare, e che deve essere il primario interesse del pediatra, è proprio il “miglior interesse del bambino” recentemente definito “come il bilancio tra potenziali benefici e potenziali danni o stress derivanti dal trattamento (CPS, 2000)”, sulla cui definizione si può discutere ma sulla cui posizione di assoluta priorità rispetto all’equilibrio ed al benessere della famiglia, alla serenità o alle paure dei sanitari, agli oneri o alle giustificazioni della società, non vi deve essere argomentazione.

Indiscutibilmente la decisione di non trattare o di interrompere le cure intensive nel periodo perinatale “…è un dilemma morale a cui non ci sono facili risposte e per il quale ogni persona ragionevole può non essere d’accordo” (Lorenz, 2001) ma rimanere inerti davanti al problema, dare per scontato il sottoporre tutti, sempre alle cure intensive, può essere più inaccettabile, da un punto di vista etico, che il porsi il problema e cercare, con umiltà, tutti insieme, una soluzione.
Maria Serena Pignotti (articolo pubblicato su Il Nuovo anno 10 n°1)