lunedì, maggio 01, 2006

Cure intensive in età perinatale: esiste un limite?

La scelta assistenziale di neonati con condizioni mediche incurabili è stata definita “l’area più difficile della pratica pediatrica” (RCPCH, 1997). Nelle età gestazioni estremamente basse, al di sotto delle 26 settimane, l’eticità delle decisioni di trattamento è un argomento molto dibattuto e rappresenta, a tutt’oggi, una delle aree più complesse della medicina perinatale e neonatale. Non solo gli studi sulla sopravvivenza e morbilità sono insufficienti e spesso non confrontabili, ma la maggior parte delle tecniche assistenziali, delle opzioni terapeutiche, farmacologiche e non, dei protocolli diagnostici e terapeutici su madre e feto/neonato non sono suffragati da dati clinici sperimentati.
Pochi studi randomizzati e controllati sono stati condotti per identificare gli approcci ottimali all’assistenza alla madre ed al neonato in queste fasce estreme di età gestazionale e non esistono protocolli in grado di aiutare il medico a formulare piani di trattamento uniformi.
Ci sono enormi aree di incertezza ed anche di completa ignoranza scientifica che precludono un’assistenza ottimale basata sull’evidenza (Higgins, 2005). La lista delle conoscenze mancanti che sono considerate necessarie e prioritarie per la valutazione ed il trattamento di questa popolazione di madri e neonati è incredibilmente lunga e oggetto di articoli, frutto di lavori il cui unico scopo è semplicemente indicare la necessità, la priorità di tali studi e raccomandarne l’esecuzione.
Il tipo di rianimazione cui sottoporre questi bambini, per esempio, semplicemente estrapolata da quelli più grandi, gli effetti a lunga scadenza dei farmaci usati nel neonato o in sua madre, la quantità e la qualità dei liquidi da infondere, a quali curve di crescita riferirsi, l’utilizzo di farmaci cardioattivi, anticonvulsivanti, analettici…, quale e quanto latte usare per la nutrizione, quali siano i corretti dosaggi degli antibiotici, sono tutti o quasi campi in cui mancano anche le più elementari evidenze, le cui risposte sono generalmente solo estrapolazioni di ricerche sugli adulti e sui bambini più grandi. E questo solo per fare degli esempi. In conseguenza di tale enorme ignoranza scientifica, la maggioranza delle decisioni riguardanti l’ assistenza di tali madri e di tali neonati sono empiriche, basate su piccolissime serie di casi, sull’opinione di esperti e su esperienze pratiche di singoli.
Tale situazione assistenziale configura il caso della sperimentazione più che un approccio moderno, scientificamente valido, universale e basato su studi controllati, quello della moderna medicina basata sull’evidenza.

“..È necessario che i neonatologi informino la comunità di quello che possiamo o non possiamo fare: dopotutto NICU sta per intensive “care” unit e non intensive “cure” unit”, scrive nel 1999 Koh, neonatologo australiano. Silverman, 2004, sostiene che “i neonatologi sono diventati i guardiani autonominatisi dei diritti dei neonati ai confini della capacità di sopravvivenza e che questo loro potere di prendere decisioni sui bambini sta scavalcando i competenti diritti delle famiglie e della società” e domanda un piano di inchiesta nazionale per verificare se “l’opportunismo abbia preso il posto della compassione” nelle unità di cure intensive neonatali del suo paese.
Lorenz, 2004, enfatizza il concetto che i genitori sono i tutori legali del bambino e l’importanza della loro libera decisione e, quindi, la questione più importante diventa come i medici possano fornire al meglio consulenza ai genitori in un modo che sia chiaro, accurato, consistente col problema e che non indichi già, eccessivamente, una via di comportamento.
Non meno importante, nel dibattito internazionale, è il vissuto dei genitori “quello che i medici definiscono handicap minore può essere devastante per il bambino e per la sua famiglia. I futuri genitori lo devono sapere. Mio figlio ha un lieve ritardo mentale, una lieve paralisi cerebrale, un lieve danno visivo…in alcuni studi è considerato portatore di handicap minori. A dispetto dell’ottimismo dei suoi primi follow up, 21 anni più tardi, i suoi cosiddetti “lievi problemi”, in combinazione, gli rendono impossibile vivere autonomamente” (Harrison,1999).
O ancora “Non è un esperimento la vita di Andrew? Andrew è interessante per loro in un qualche modo distaccato… il loro proprio, privato progetto di ricerca…” (Stinson, 1993). In certi casi astenersi dall’accanimento terapeutico può significare “limitare le cure intensive”, dopo una attenta valutazione della prognosi e delle possibilità del bambino, nell’intento di agire per il suo vero interesse.

Ma chi tra i medici tende a limitare le cure: i medici più anziani, con maggior esperienza, quelli che hanno anche esperienza di follow-up successivo, quelli che si considerano meno “religiosi”(Cuttini, 2000). Fatto sta che è stato riportato (Sanders, 1995) come un terzo dei neonatologi intervistati al riguardo, dichiari che, nelle stesse situazioni, “tratterebbe meno aggressivamente il proprio figlio”; e tale dichiarazione è di estrema importanza. Infatti, se, estrapolando da un pensiero di Jonas, filosofo tedesco, che ricondurrebbe ai soli medici l’essere oggetto delle sperimentazioni, in quanto unici ad essere pienamente consapevoli e liberi nella scelta di sottostarvi o di rifiutarsi, pensiamo che solo i medici comprendano veramente i veri risvolti di una scelta assistenziale aggressiva, ancor più, tale affermazione assume importanza decisiva. D’altra parte, scrivono i canadesi, “la capacità della moderna medicina e della tecnologia di prolungare la vita è adesso così avanzata che vi è il reale pericolo che il prolungamento di questa diventi l’unico fine, senza rispetto per la rovina che tale azione può provocare in altre persone o per i veri e desiderabili scopi che essa dovrebbe avere”(CPS, 2000).

Ed ancora, riportando una recente riflessione di un grande neonatologo inglese: “lo scopo della neonatologia deve essere migliorare la prognosi dei bambini nati vivi, piuttosto che cercare, ad ogni costo, di far sopravvivere i piccolissimi”(Levene, 2004). Quello che ci deve guidare, e che deve essere il primario interesse del pediatra, è proprio il “miglior interesse del bambino” recentemente definito “come il bilancio tra potenziali benefici e potenziali danni o stress derivanti dal trattamento (CPS, 2000)”, sulla cui definizione si può discutere ma sulla cui posizione di assoluta priorità rispetto all’equilibrio ed al benessere della famiglia, alla serenità o alle paure dei sanitari, agli oneri o alle giustificazioni della società, non vi deve essere argomentazione.

Indiscutibilmente la decisione di non trattare o di interrompere le cure intensive nel periodo perinatale “…è un dilemma morale a cui non ci sono facili risposte e per il quale ogni persona ragionevole può non essere d’accordo” (Lorenz, 2001) ma rimanere inerti davanti al problema, dare per scontato il sottoporre tutti, sempre alle cure intensive, può essere più inaccettabile, da un punto di vista etico, che il porsi il problema e cercare, con umiltà, tutti insieme, una soluzione.
Maria Serena Pignotti (articolo pubblicato su Il Nuovo anno 10 n°1)