mercoledì, maggio 10, 2006

L'impressionante cesura della nascita

“Tra la vita uterina e la primissima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere la impressionante cesura della nascità”: cosi si esprimeva Freud nel 1926 nell’ottavo capitolo del suo esteso lavoro: “Inibizione, sintomo ed angoscia”, che ha fornito un contributo fondamentale alla dottrina psicoanalitica.
Freud descrive l’angoscia del neonato come “automatica e traumatica”, dato che essa è il prodotto di uno stato di impotenza biologica e psichica, non essendoci ancora le capacità di padroneggiarne la scarica e ritiene che “la madre, la quale ha appagato fin dall’inizio tutti i bisogni del feto mediante le organizzazioni del suo corpo, prosegue la sua funzione in parte con altri mezzi anche dopo la nascita”[...] [e] “l’oggetto materno psichico sostituisce per il neonato la situazione fetale biologica”. Nella vita post-natale troviamo quella linea di sviluppo che trasforma questa angoscia originaria in angoscia-segnale di allarme attraverso l’esperienza dell’oggetto-madre presente-assente.
Questa dialettica individuale fra angoscia traumatica ed angoscia segnale accompagna tutta la durata della vita e, ad iniziare dalla “cesura” della nascita, costituisce l’elemento fondante dell’asse semiologico di ogni angoscia di separazione.
Con la parola “cesura” pensiamo al “taglio” del cordone ombelicale, alla “separazione”, al “distacco” ma anche al significato che essa ha nella metrica come pausa, interruzione, nel corso di un verso, di una poesia. In questo senso si può conprendere quella continuità che indubbiamente esiste fra il mondo in cui vive il feto e quel mondo nel quale si ritroverà a vivere dopo l’evento impressionante del parto.

Il bebé buttato fuori nello spazio infinito
Il feto, portandosi dietro tutta l’esperienza bio-psicologica che ha vissuto nell’utero, diventa quel neonato che “sventola la sua esistenza psichica” , come scrive Dina Vallino nel suo recente libro “Essere neonati “ (Ed. Borla). Vi è quindi un passaggio da una condizione psicofisiologica prenatale a una successiva neonatale, molto dipendente dalle condizioni ambientali ma provvista di un equipaggiamento sufficientemente maturo per mettere in funzione le già acquisite competenze . Va considerato che il bambino appena nato mentalmente è ancora un feto, è l’essere di prima in una situazione nuova, e non può all’improvviso cambiare la sua natura; infatti nei primi tempi di vita post natale assistiamo al suo bisogno di ritrovare molte sensazioni che aveva quando era ancora un feto dentro il corpo materno, come le posizioni del corpo, i contatti, il calore, ed altro ancora.
Per Esther Bick -la famosa psicoanalista a cui si deve l’approfondimento della metodologia dell’osservazione psicoanalitica continuata del neonato nella famiglia- comunque si consideri la nascita, il neonato è un bebè che è stato buttato fuori nello spazio infinito, che è senza gravità come un cosmonauta, che ha bisogno della “tuta spaziale”; inoltre questo bebè è passato dalla più intensa claustrofobia alla più grande agarofobia e mai più proverà così intensamente queste sensazioni.

La pelle tuta spaziale
Il neonato, come tutti i neonati, passa per queste angosce e dipenderà da come sarà tenuto subito dopo, dalle esperienze che farà con la sua mamma in tutti i vari momenti in cui verrà accudito, se potrà sentire di avere una sua “pelle-tuta”, un buon contenimento.
L’ipotesi lanciata da E. Bick è che il bambino molto piccolo sperimenta le parti della propria personalità come se non possedessero alcuna forma coesiva tra di loro, ma fossero tenute insieme passivamente ed in modo alquanto precario da una “pelle psichica” identificata con la pelle fisica.
Il bambino si sente in pericolo costante di spargersi fuori improvvisammente, di andare a pezzi, disperdersi in uno stato di non integrazione: è per questo che cerca un oggetto contenitore che lo faccia sentire trattenuto, tenuto insieme. Il primo oggetto contenitore è rappresentato dal capezzolo in bocca e da tutte le funzioni di holding della madre o del sostituto materno, funzioni che rafforzano questa pelle psichica.
Quando manca questo contenimento il piccolo neonato deve cercare in vari modi di tenersi insieme, attaccandosi ad uno stimolo sensorio-visivo-olfattivo o compiendo movimenti corporei continui, come serrare insieme dei gruppi di muscoli, e la ormai estesissima esperienza di Infant Observation ci ha dato tante testimonianze di questi comportamenti.

Dalla parte delle madri
Vista dalla parte delle madri, la nascita ha una sua preistoria che si dispiega in tutti quegli eventi mentali che si instaurano a partire dal momento in cui viene fatto il progetto-bambino e successivamente nel corso della gravidanza: essi costituiscono l’esperienza della maternità interiore.
L’interesse a comprenderla per preparare una atmosfera emotiva favorevole all’evento della nascita è oggetto di studi e ricerche nell’ambito psicoanalitico in relazione a quanto avviene al giorno d’oggi, in cui la gravidanza si trova sotto il dominio-controllo-monitoraggio biologico sempre più perfezionato di nuove metodologie finalizzate alla prevenzione ed al benessere fisico delle future mamme e del feto. Esse, che pure sono necessarie, rischiano infatti di sottrarre la mente materna alla necessità di mettersi in contatto continuo con il bebè “ pensato”, e quindi a non partecipare a quell’avventura vitale che riguarda i grandi cambiamenti costitutivi della identità. Conosciamo il ruolo che riveste oggi l’ecografia, che dà quella grande quantità di informazioni sulle condizioni del feto e sulle sue competenze, ma sappiamo anche che essa ha un suo ruolo intervenendo nella costruzione della vita fantasmatica della donna incinta, e provocando un passaggio mentale -a volte prematuro- dal “bambino immaginario” al feto-bambino reale, osservato nell’immagine ecografica.
La separazione biologica del parto trova il suo corrispettivo sul terreno psicologico nella disillusione derivante dall’inevitabile scarto che esiste fra il bambino immaginato, fantasticato, ed il neonato reale. Subito dopo il parto, quando la madre riceve il neonato fra le braccia, essa ha talvolta una comprensibile difficoltà ad avere una relazione con lui: è un estraneo, diverso dal “bambino della notte”, da quel bambino che è stato tanto sognato e desiderato.

“Nascita e infanzia di Giovannino”
In una lunga biografia del Pascoli scritta dalla sorella Maria e pubblicata postuma nel 1961, inizia in questo modo il capitolo: “Nascita e infanzia di Giovannino”, cioè del poeta, che era nato il 31 dicembre del 1855, quarto figlio di Caterina e Ruggero: “La sua nascita rimase ricordevole per un gran piangere che fece su lui la sua mamma appena lo ebbe tra le braccia, perché gli scorse una piccola imperfezione nel dito mignolo del piede destro, consistente in una eccessiva larghezza dell’ultima falange”.
Riprendendo a riflettere sul bebè appena nato, ci risulta ben comprensibile la metafora della “tuta spaziale”: sappiamo molto oggi sulla vita del feto rinchiuso nel suo mondo, in un ambiente che ha una sua continua e costante omogneità, la quale crea un insieme di sensazioni vissute che lo protegge come una vera “barriera” verso gli stimoli esterni ed interni, sempre che essi non superino una certa soglia.
Dopo il passaggio dalle strette vie vaginali, uscito dal ventre materno -ed è una ben dura prova da sperimentare- il neonato comincia a farsi sentire con un vagito, un grido più o meno forte, più o meno prolungato: è l’atto necessario per l’aprirsi dei suoi polmoni ed una reazione al dolore fisico.
È il segnale forte che è nato, che è vitale, e per la madre, che durante la fase espulsiva è stata in vario modo invasa da un afflusso imponente di rappresentazioni mentali, il grido del suo neonato prima ancora di vederlo è il segnale emozionante e rassicurante della presenza del figlio; questo per lei e per il padre, se è presente anche lui. Nella sala parto circolano gioia e soddisfazione fra gli operatori, l’ostetrica, il ginecologo, e se ci fosse presente anche un osservatore recettivo e partecipe, in quel momento potrebbe aggiungere un altro significato al grido del neonato, interpretandolo, ovverosia sentendolo come l’espressione di grande stupore e meraviglia in preda alla emozione violenta provocata in lui dal cambiamento improvviso e inaspettato delle sue sensazioni.

La nascita psichica
Ma lo scenario della nascita psichica non è ancora completo. Se seguitiamo ad osservare quel bambino appena nato vediamo presto i piccoli movimenti della sua bocca, movimenti che esprimono la sua ricerca di un oggetto. Quando poi viene messo al seno, sperimenta la sua attività di suzione, il senso di esistere, e cosi mentre succhia ed è tenuto al caldo fra le braccia, soddisfa contemporaneamente la sua oralità ed il suo bisogno di fusionalità (Vallino).
Un altro momento essenziale può verificarsi, una manifestazione che può passare inosservata o non essere appprezzata nel suo significato particolarmente relazionale e profondo: dopo i primi vagiti -ed a volte anche prima di questi- il neonato può aprire gli occhi, spalancarli con le pupille dilatate, tanto da sembrare uno sguardo intenso dritto davanti a sè.
Non ci si domanda se vede, conosciamo le sue deboli e vaghe capacità percettive, ma se questo tipo di “sguardo” incontra lo sguardo della madre, se avviene un contatto fra i due sguardi, questo provoca un intensa ed indimenticabile commozione nella madre, e rappresenta una funzione importante nella costituzione del legame tra il bebè e la madre, ed anche fra il bebè ed il padre, se anche lui è chiamato a parteciparvi.
La precocità di questo “sguardo” che un gruppo di studiosi, appartenenti all’Associazione Francese di Maternologia -settore di studi tutto dedicato alla maternità psichica- ha definito in modo poco traducibile: “ Le lever natale des yeux” per distinguerlo dallo sviluppo successivo dello sguardo esplorativo e di ricerca del bambino dopo il primo mese di vita, ha per loro la funzione di creare fin dalla nascita un’atmosfera genitoriale ed un clima di “amore a prima vista”, e ritengo che il loro assunto si possa pienamente condividere.
Gli studi sulla osservazione del neonato nella sua famiglia hanno sempre mostrato come i genitori si sentano ricercati, desiderati, riconosciuti dagli sguardi sempre più attenti dei loro bebè, via via che passano i primi mesi, ed essere “guardati” dagli occhi dei genitori è indispensabile per il bebè al fine di sentirsi esistere nella loro mente.
Indubbiamente dobbiamo fare più attenzione alla comparsa precoce di questa apertura degli occhi, che è certamente legata ad un livello di maturazione neurofisiologica, ma se essa trova una risposta nello sguardo della madre (o del padre) è annunciatrice di quella reciprocità del senso di esistere per l’altro, il senso primario che rinforza emotivamente quella relazione che si stabilisce col contatto corporeo e con quello fra il capezzolo e la bocca.

“Ci siamo guardate”
Per concludere sull’osservazione di questo complesso scenario della nascita, ricordo una mia esperienza :
Una giovane signora era venuta a cercarmi, incinta al terzo mese di gravidanza: era in preda ad una grande agitazione e confusione, da poco tempo erano avvenuti tanti, troppi cambiamenti nella sua vita, uno dopo l’altro. Abbiamo iniziato un lavoro insieme e questa gravidanza ha avuto momenti di crisi che sono stati via via affrontati e superati, mentre emergevano segnali indicatori di futuri momenti depressivi; il tempo era veramente poco per cercare di prevenirli. Siamo giunti allo scadere del tempo, e pochi giorni dopo ricevo una telefonata. Era lei che con voce commossa mi comunicava che la bimba era nata, era grande, lunga, che era stata aiutata bene, e -dopo una pausa- che le avevano subito messo la bimba addosso e l’aveva vista con gli occhi aperti che la guardava: “ci siamo guardate!” esclama, e mi rendo conto che sta piangendo.
E’ tornata molto presto da me portandomi la sua bimba. Cosi le ho potute guardare anch’io. e negli incontri successivi, quando emergeva la depressione c’ è sempre stata una bimba attratta dal volto della mamma, intenta a guardarla e lei a ricordare il primo sguardo ed a sentirsi una buona mamma ricercata che ha potuto allattare la sua bimba e farla crescere vicino a lei.
Ho pensato di aver fatto una bella esperienza anch’io, non solo di una terapia madre-bambino ma anche di una terapia condotta con la collaborazione della stessa bimba, la quale ha fornito il suo sguardo che ha avuto una funzione terapeutica, cosi importante per mantenere il legame e non farlo rompere dall’irruzione della depressione. I bambini possono essere buoni terapeuti per i loro genitori!
Ho iniziato a parlare di cesure ed ho finito per parlare di legami, di unioni.
Gina Ferrara Mori (articolo pubblicato su Il nuovo anno 10 n° 1)
Da un intervento all’incontro su “La Nascita”, Firenze, Sala Magliabechiana degli Uffizi, 16 dicembre 2005.