venerdì, maggio 05, 2006

Riflessioni in tema di paralisi cerebrale infantile

Nella paralisi cerebrale infantile (PCI), il termine “paralisi” indica la forma delle funzioni messe in atto da un soggetto, il cui sistema nervoso centrale (SNC) è stato leso in modo irreparabile, per rispondere alle richieste dell’ambiente (Ferrari, 1990). La paralisi non rappresenta cioè la somma dei difetti e dei deficit posseduti da organi, apparati e strutture, in ambito sia centrale sia periferico, ma costituisce il diverso assetto di funzionamento (computazione), la diversa modalità di “ri”-organizzazione ed azione (coerenza) di un SNC che continua a cercare nuove soluzioni all’esigenza interna di divenire adatto e al bisogno esterno di adattare a sé il mondo che lo circonda (Ferrari, 1993).
L’idea che la paralisi come “forma delle funzioni” non rappresenti la diretta conseguenza della lesione, ma costituisca piuttosto l’espressione della ri-organizzazione dell’intero SNC, è sostenuta dal fatto che tra sede, natura ed entità della lesione da un lato, e manifestazione clinica di PCI dall’altro, non esistono che generiche correlazioni. A parità di neuroimmagini (TAC, RMN), infatti, possiamo osservare forme cliniche di PCI significativamente differenti fra loro; viceversa, bambini assimilabili sotto il profilo sia motorio che percettivo possono possedere storie lesionali assai diverse. Per chiarire ogni eventuale dubbio in proposito basta considerare che almeno la metà dei soggetti con emiplegia congenita mostra alle neuroimmagini lesioni emisferiche bilaterali (Cioni, 1999).
Questo diverso modo di interpretare la PCI ne influenza necessariamente anche gli aspetti tassonomici. L’architettura di fondamentali funzioni adattive quali il controllo posturale, la deambulazione e la manipolazione, piuttosto che la distribuzione topografica del difetto motorio (tetraplegia, diplegia, emiplegia) combinata a sintomi guida come flaccidità, spasticità, distonia ed atassia, deve stare, infatti, alla base dei criteri classificativi adottati per inquadrare le diverse sindromi della PCI. Le differenti forme cliniche (i vari tipi di tetraplegia, diplegia ed emiplegia) non sono semplicemente un’espressione diretta del danno strutturale, cioè dell’eziologia, della patogenesi e del timing della lesione, ma costituiscono piuttosto la manifestazione riconoscibile del percorso seguito dal SNC nel processo di “ri”costruzione delle funzioni adattive, portato tenacemente avanti nonostante la presenza inemendabile della lesione.


Per funzione intendiamo la relazione dinamica interattiva che intercorre tra il mondo intrapersonale di ciascun individuo e il suo mondo extrapersonale o contesto, a sua volta composto di collettività ed ambiente (Manifesto per la riabilitazione del bambino, Roma 2000). Questa relazione dinamica esprime l’insieme delle soluzioni operative messe in atto dal SNC del soggetto per soddisfare un determinato bisogno, biologicamente significativo per lui in quel definito periodo della vita.
L’aggettivo “adattivo” precisa che la funzione considerata, pur essendo necessariamente diversa dal normale in quanto prodotta da un SNC leso, risulta vantaggiosa per l’attore, idonea allo scopo ed adeguata al contesto in cui viene esercitata.


Le funzioni motorie più adatte per l’inquadramento tassonomico delle diverse forme cliniche di PCI, almeno nelle sindromi spastiche, sono costituite dalla:
- funzione antigravitaria (organizzazione della postura) per le tetraplegie
- funzione locomotoria (cammino maturo) per le diplegie
- funzione manipolativa e prassica per le emiplegie (Ferrari, 2005).
In termini di outcome, infatti, poiché non tutti i bambini tetraplegici possono raggiungere la posizione seduta autonoma e la stazione eretta anche assistita, l’architettura della postura può essere considerata la funzione da esplorare più rilevante ai fini della classificazione di queste forme di PCI e della misurazione dei risultati ottenuti mediante il trattamento rieducativo. Tutti i bambini diplegici, viceversa, possono arrivare al cammino (anche se qualcuno di loro finisce successivamente per perderlo o per abbandonarlo), ma con modalità ed assetti (pattern locomotorio, ortesi, ausili) estremamente differenti. L’architettura della marcia può costituire perciò un elemento abbastanza significativo per distinguere fra loro le diverse forme cliniche della diplegia e soprattutto per dirigere strategie e strumenti del trattamento rieducativo. Lo stesso criterio potrebbe valere anche per i soggetti emiplegici, come ha già dimostrato il gruppo di Winters (1987), ma poiché nessun bambino emiplegico incontra difficoltà nella acquisizione spontanea della statica e della marcia, è a nostro avviso più significativo classificare le forme cliniche di emiplegia infantile andando ad analizzare l’architettura della funzione manipolativa e prassica.
Una classificazione basata sull’analisi dell’architettura di funzioni motorie di base quali controllo posturale, locomozione e manipolazione risponde sicuramente in pieno al dettato della definizione internazionale di PCI tuttora in vigore “turba della postura e del movimento” (Bax, 1964), ma perché essa possa essere ugualmente efficace per la costruzione del progetto terapeutico e per la misurazione dei risultati raggiunti con il trattamento rieducativo occorre che la valutazione della funzione guida non sia limitata agli elementi puramente motori (moduli, prassie ed azioni), ma estesa agli aspetti sensoriali (sensazioni, percezioni e rappresentazioni) ed intenzionali (capacità, abilità e pulsioni) (Ferrari, 2005).

Postura: definita relazione reciproca fra i segmenti che compongono il corpo valutata in un dato istante in relazione allo spazio circostante. Movimento arrestato (congelato).
Movimento: spostamento nello spazio e nel tempo di uno o più segmenti del corpo o di questo nel suo insieme. Passaggio da una postura ad un’altra.


Postura: definita relazione reciproca fra i segmenti che compongono il corpo valutata in un dato istante in relazione allo spazio circostante. Movimento arrestato (congelato).
Movimento: spostamento nello spazio e nel tempo di uno o più segmenti del corpo o di questo nel suo insieme. Passaggio da una postura ad un’altra.


In ciascuna forma clinica di PCI, lo sviluppo delle funzioni adattive segue una propria logica coerente (storia naturale) dettata dal combinarsi di fattori centrali (componenti top down), quali erano per Milani Comparetti (1978) le diarchie, comuni a tutti i soggetti con la stessa sindrome e della stessa età ed il più delle volte immodificabili, fattori periferici (componenti bottom up), propri dell’apparato locomotore (AL) e non necessariamente identici fra soggetto e soggetto, e strategie individuali (coping solutions), prestazioni assai diversificate, ma spesso riproducibili, che il singolo paziente ha trovato col tempo per “potersela cavare meglio” (Ferrari, 2005). L’architettura della funzione è costituita dalla somma degli elementi centrali, periferici ed individuali.
Nel bambino con PCI, l’influenza reciproca dei fattori utilizzati nella costruzione di una funzione adattiva risulta riconoscibile in modo tanto più chiaro quanto più grave è l’espressione clinica della sua paralisi.
Per semplificare la comprensione degli elementi centrali, o fattori top down, possiamo immaginare che nella costruzione di una funzione adattiva i diversi tipi di prestazione motoria fungano da ingredienti potenziali, mentre le ricette utilizzate nel metterli assieme rivelino le modalità operative seguite dalla struttura organizzatrice.
Appartengono alla sfera delle prestazioni tutte le condotte motorie del paziente: dal repertorio dei moduli alle sinergie, partendo dal più basso livello di integrazione, il riflesso monosinaptico, per giungere a quello più alto, il gesto specializzato, passando per le reazioni, i pattern motori primari, gli automatismi secondari, secondo un idea già proposta da Milani (1982). Sono invece propri della struttura organizzatrice i processi di raccolta ed elaborazione delle informazioni, di confronto ed integrazione delle sensazioni in percezioni, di riconoscimento ed archiviazione delle percezioni in rappresentazioni e di elaborazione di queste in vissuti, la capacità di controllo simultaneo e sequenziale; la possibilità di rendere automatici gli schemi percettivo-motori che stanno alla base delle prestazioni più ripetute; la memoria in tutte le sue forme e soprattutto la capacità di apprendimento, di acquisizione e di generalizzazione di quanto conquistato.
I difetti ed i deficit degli elementi top down rappresentano la parte meno emendabile della paralisi. I fisioterapisti chiamano tuttora “trattamento prognostico”, secondo il lessico di Milani (1985), la misura della possibilità concessa al bambino, guidato terapeuticamente attraverso opportune facilitazioni, di poter ri-organizzare la funzione adattiva deficitaria modificandone l’architettura (selezione degli ingredienti e scelta delle ricette).

Apprendimento: funzione geneticamente programmata che permette la conquista di abilità geneticamente non previste attraverso l’esposizione ad esperienze significative più o meno ripetute (Milani Comparetti, 1982).
Apprendimento motorio: insieme di processi associati con l’esperienza che conduce a cambiamenti permanenti nella capacità di effettuare determinati compiti motori (Schmidt, 1991).

Apprendimento: funzione geneticamente programmata che permette la conquista di abilità geneticamente non previste attraverso l’esposizione ad esperienze significative più o meno ripetute (Milani Comparetti, 1982).
Apprendimento motorio: insieme di processi associati con l’esperienza che conduce a cambiamenti permanenti nella capacità di effettuare determinati compiti motori (Schmidt, 1991).


A fronte delle componenti “centrali”, nella PCI, non diversamente da quanto avviene in altre malattie disabilitanti dell’infanzia, l’AL esprime proprie caratteristiche “periferiche” di cui il SNC deve tener conto nella costruzione delle funzioni adattive: sono le componenti bottom up. Alcune di queste caratteristiche, come le deformità secondarie, sono la conseguenza diretta degli errori compiuti dal SNC, amplificati dalla crescita somatica, altre come le caratteristiche strutturali del muscolo, del connettivo ed in parte dell’osso, sono diretta conseguenza della lesione ma non della paralisi (Dan, 2004).
Nella costruzione delle funzioni adattive, fra SNC ed AL avvengono continui condizionamenti reciproci. Il SNC del soggetto è perciò largamente influenzato anche dalle caratteristiche strutturali dell’AL che esso stesso ha contribuito a modificare, sia primitivamente con la crescita e la tipizzazione dei tessuti, sia secondariamente attraverso l’esercitazione della motricità patologica.

Il terzo fattore da considerare per comprendere l’architettura della funzione è costituito dalle strategie individuali (coping solutions) che il bambino mette in atto per potersela “cavare meglio” e che, in quanto performance individuali, non si prestano ad un inquadramento generale. Gli elementi bottom up e soprattutto le coping solutions sono responsabili delle differenze inter-individuali, comunque apprezzabili, che si osservano fra i soggetti che appartengono ad una stessa forma clinica di PCI e sono ampliamente influenzabili dalla terapia rieducativa, che dovrebbe saper cogliere dagli individui più abili i “trucchi” migliori per poterli insegnare a quelli meno dotati.

All’idea biologica che la PCI sia una paralisi dello sviluppo (semeiotica dei difetti inemendabili) deve contrapporsi immaginificamente il concetto neuro-psico-biologico dello sviluppo della paralisi (Ferrari, 1988) come forma di una nuova relazione dinamica che l’individuo cerca “comunque” di costruire con l’ambiente che lo circonda (semeiotica delle risorse residue). Se si comprendono le regole di questo processo, nella PCI studiando i comportamenti del passato (storia naturale) e del presente (diagnosi) si potranno ragionevolmente prevedere le condotte del futuro (prognosi) e definire gli obiettivi possibili per la terapia rieducativa (modificazioni migliorative, oggettive, permanenti e misurabili delle funzioni adattive). Nel trattamento della PCI le diverse proposte terapeutiche (fisioterapia, farmaci, ortesi, chirurgia funzionale) per essere efficaci devono sapersi cioè sintonizzare sulla “auto ri-organizzazione” del SNC del bambino, seguendone la logica interna, per deviare stabilmente l’organizzazione delle funzioni espresse nella direzione ritenuta più vantaggiosa. Per ottenere questo risultato occorre però riuscire a superare prima di tutto l’idea è che la fisioterapia debba attingere i propri strumenti terapeutici dallo sviluppo del bambino normale per trasferirli, lasciandoli possibilmente tali, al soggetto patologico. Poiché il bambino con PCI non può apprendere normalmente (anche l’apprendimento, in quanto funzione, risulta necessariamente compromesso) e non può apprendere la normalità, perché essa è estranea al repertorio delle sue risorse residue, la normalità non può costituire né lo strumento né lo scopo del nostro agire terapeutico. Se concordiamo con l’affermazione che la paralisi rappresenta la forma delle funzioni messe in atto dal SNC del soggetto per rispondere ai propri bisogni, le nostre proposte terapeutiche dovranno essere coerenti con l’architettura della funzione considerata, che resterà in ogni caso una funzione diversa e più o meno alterata, anche se in modo funzionalmente meno grave per merito del nostro intervento terapeutico. All’interno dell’architettura della funzione, alcuni elementi sono modificabili più o meno facilmente ed altri non lo sono per niente. Il margine di modificabilità della funzione, e non la gravità della paralisi, dovrà idealmente costituire la misura del possibile in riabilitazione ed essere posto alla base della presa in carico del bambino con PCI e del contratto terapeutico stipulato con la sua famiglia. Oltre alla modificabilità dell’architettura della funzione, altri due elementi sono indispensabili per l’agire terapeutico: la presenza di una residua capacità di apprendimento (è l’apprendimento e non il movimento a costituire l’esatto opposto del concetto di paralisi) e la motivazione del soggetto, ovvero il suo interesse, la sua partecipazione e la sua voglia di cambiare, in sostanza la propositività di cui ci parlava Milani (1981).
La fisioterapia è una forma di insegnamento che presuppone, reciprocamente, da parte del bambino una conservata capacità di apprendimento. Diverse sono le modalità di apprendimento delle funzioni adattive (per tentativi ed errori, per imitazione, per istruzione diretta, per problem solving, per via cognitiva, per catastrofe, ecc.); altrettanto specifiche dovranno essere le modalità di insegnamento adottate in fisioterapia, che occorrerà saper selezionare in base ai meccanismi di apprendimento rimasti accessibili al paziente.
La terapia deve produrre una modificazione stabile e migliorativa della capacità di agire del paziente: perché un intervento possa essere considerato terapeutico occorre che all’interno della libertà di scelta concessa dalla patologia sia riconoscibile la selezione operata dal soggetto (esperienza), in relazione alle regole stabilite dal terapista (guidata) e che il compito assolto ed il risultato conseguito siano importanti per il bambino (significativa) in modo da meritare di essere conservati e riprodotti (Ferrari 1997).
In questa direzione un aspetto da rivedere è l’idea che il problema della PCI sia prevalentemente motorio (prima “dimensione” della paralisi) e che la fisioterapia si debba occupare principalmente, se non esclusivamente, di movimento. La rieducazione delle componenti percettive (seconda “dimensione” della paralisi) costituisce almeno metà del problema rieducativo ed esige soluzioni estremamente differenziate fra loro, dal momento che i difetti presenti possono essere molto diversificati: la mancata raccolta d’informazioni alla periferia o la loro intollerabilità (sensazioni), ad esempio; l’insufficiente attenzione o l’incoerenza fra i diversi apparati implicati nella costruzione delle percezioni; gli errori commessi a livello di anticipazione (copia collaterale) che conducono a rappresentazioni errate cui consegue il mancato consenso al movimento e quindi la rinuncia all’azione, ecc.
Accanto agli aspetti motori ed a quelli percettivi la terza “dimensione” della paralisi è costituita dall’intenzionalità e in questo settore la terapia può solo far emergere gli interessi del bambino agendo opportunamente sul contesto ed offrendogli adeguati modelli operativi. Il setting terapeutico acquista perciò in riabilitazione un preciso significato: il luogo costituisce una facilitazione all’azione (occasioni e possibilità come attività potenziali, Van der Meer 1999), gli oggetti in esso contenuti una facilitazione al loro impiego più appropriato (Fadiga, 1999), le regole imposte all’azione una facilitazione al suo divenire adattiva (scopo, individuo, ambiente fisico, contesto sociale, sfera culturale), il modello offerto con il comportamento del fisioterapista una facilitazione al come progettare e pianificare l’azione (Kholer, 2002).

La riabilitazione della PCI ne esce “riabilitata” (Milani, 1980). Infatti la riabilitazione non costituisce una vera cura ma una forma di educazione, il più delle volte non corregge alcuna lesione ma produce ugualmente nel paziente importanti cambiamenti, non cancella i difetti e neppure cerca di nasconderli, ma si adopera per sviluppare idonei compensi o adeguate supplenze, non conduce alla normalità ma sa adattare reciprocamente individuo, comunità ed ambiente allo scopo di rendere nuovamente possibili interazione, integrazione ed indipendenza (Ferrari, 1997), o, quando ciò non sia possibile, almeno autodeterminazione, rendendo il bambino con PCI protagonista del processo del proprio recupero, proprio come ci aveva raccomandato Adriano Milani (1976).
Adriano Ferrari (articolo pubblicato su Il nuovo anno 10 n° 1)