domenica, maggio 27, 2007

L’educazione dei giovani e le confraternite nella Firenze del rinascimento

Tra l’età tardo medievale e il rinascimento una struttura fondamentale per l’integrazione sociale soprattutto nelle città è quella delle confraternite,. come mostra in modo mirabile Ilaria Taddei, in un volume di cui si è già parlato nelle pagine di questo periodico (Fanciulli e giovani. Crescere a Firenze nel Rinascimento, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2001) e al quale ancora ci direttamente ci riferiamo nello stendere queste note.
A Firenze le confraternite si diffusero a partire dalla grande peste del 1348 e rispondevano ad un’esigenza di riconoscimento e di affratellamento fra i singoli individui. Esse da un lato si configurarono come strutture aperte ad ogni strato della popolazione;.dall’altro vennero progressivamente specializzandosi con il rivolgersi a specifiche categorie professionali e a precise fasce di età, interessando così fortemente anche le problematiche inerenti ai percorsi educativi. Accanto alle compagnie di adulti e da queste derivanti, nacquero quelle dei fanciulli e dei giovani (societates iuvenum, societates puerorum et adolescentium) che dalle prime dipendevano e ricevevano protezione pur mantenendo nei loro confronti una relativa autonomia. Così Firenze, nel corso del ‘400, anche in questa configurazione delle confraternite, costituisce un luogo privilegiato rispetto ad altre città italiane, dove strutture analoghe si sarebbero sviluppate solo oltre un secolo dopo. Attraverso l’istituzione delle compagnie dei fanciulli e dei giovani, frutto dell’iniziativa di élites laiche che godevano dell’appoggio di ecclesiastici, si intendeva creare “scuole” aventi l’obbiettivo primario di sviluppare le virtù cristiane. Secondo alcuni studiosi l’affermarsi e il crescere di numero di queste confraternite sarebbe dovuta alla crisi demografica e familiare della società fiorentina fra ‘300 e ‘400 con il problema ad essa connessa dell’omosessualità giovanile. Di fronte a questa crisi le confraternite rapprenderebbero una sorta di struttura integrativa della famiglia o addirittura una sorta di “famiglia artificiale”. Ma a spiegare il fenomeno occorre richiamare soprattutto l’immagine positiva che la fanciullezza guadagnò nell’età dell’umanesimo, l’idea che il fanciullo fosse, nella sua innocenza, depositario di virtù divine e perciò capace attraverso la sua devozione di ottenere la purificazione dell’intera comunità. Più in generale vi contribuì la predicazione ecclesiastica di religiosi come il vescovo Antonino Pierozzi che tanto insistettero sulla formazione catechistica nonché la grande importanza attribuita dalla cultura umanistica alla formazione dell’uomo.

A metà del ‘400 quasi non vi era giovane che non appartenesse a una confraternita. Su questa espansione influì significativamente anche la predicazione savonaroliana. Una crisi delle confraternite si registra invece fra la fine del secolo XV e l’inizio del secolo XVI sotto il principato di Cosimo I.. A questo tipo di confraternite appartenevano giovani dai 10 ai 25 anni. Inoltre l’appartenenza a questo tipo di confraternite non era determinata né dallo status sociale, né dalla solidarietà di mestiere. Essa era piuttosto influenzata dalla contiguità familiare, dalla rete delle amicizie, dalla fama della singola confraternita, dai legami parentali e familiari. Grande rilievo avevano i riti di accoglienza del fanciullo nella confraternita e di partenza da essa.Grande rilievo avevano nel rito dell’accoglienza il canto del Te Deum, l’assumere la veste bianca, lo scambio della pace e la promessa reciproca di mantenere i segreti della compagnia. Erano riti destinati a definire la condizione esistenziale dei singoli appartenenti alla compagnia e a sanzionarne e rafforzarne i legami di comunione. In particolare la veste bianca indicava la “purezza angelica” che segnava il fanciullo e che la confraternita doveva preservare fino al termine del processo di crescita. Di questa cappa bianca i fratelli si liberavano solo alla fine del percorso, al momento della partenza dalla compagnia, allorché indossavano, come i cavalieri al momento dell’investitura, l’abito verde Altri elementi caratterizzanti della cerimonia di partenza erano il ripetersi dello scambio della pace e il pasto che i membri uscenti offrivano a chi restava: tutti rituali destinati a sanzionare e rinsaldare i legami di comunione propri della compagnia. Così i riti dell’ingresso e dell’uscita potevano interpetrararsi come veri e propri riti di passaggio, caratterizzati da una simbologia e da una ritualità cristiano- cavalleresca.
Presso le confraternite i fanciulli e i giovani trascorrevano soprattutto i pomeriggi delle feste di precetto e di quelle dedicate al loro santo patrono, in alternativa al tempo che avrebbe potuto essere dannosamente impiegato nella frequentazione delle “corrotte compagnie”. Qui essi ricevavano in primo luogo una rigorosa educazione cristiana segnata in particolar modo dall’apprendimento della devozione liturgica, dal canto e dalla valorizzazione del pentimento attraverso la pratica individuale e collettiva della confessione. In questo modo i fanciulli si rendevano particolarmente capaci di ottenere l’intercessione divina e, con le loro laudi cantate, con la loro partecipazione ai cortei e alle processioni liturgiche, con i loro sermoni pronunciati a conclusione delle cerimonie religiose, suscitavano nel pubblico delle cerimonie liturgiche una commozione e un consenso destinato talora a suscitare significativi lasciti testamentari nei confronti della confraternita. L’educazione morale e l’intento di mantenere lo stato di purezza originario implicavano naturalmente anche precise proibizioni, quali il divieto di partecipare a “ludi profani”, come balli e canti “disonesti”, di bestemmiare, di frequentare le taverne dove si concentravano azzardo, vino e prostituzione e più in generale luoghi e attività “dove lo tempo se spende vanamente”. Così venivano censurati anche la caccia e l’equitazione che invece la pedagogia umanistica considerava utili a sviluppare l’abilità fisica. Di contro veniva esigita una rigorosa disciplina del corpo simile a quella monastica che implicava per es. l’abbassare lo sguardo e il chinare il capo per proteggersi dalle immagini e dai contatti impudichi. D’altra parte, nell’intento di offrire all’interno dello spazio della confraternita un’alternativa rispetto ai “ludi” indisciplinati della vita esterna, non mancava la pratica degli “onesti e piacevoli esercizi”, come il giuoco della palla o la partecipazione a “sacre rappresentazioni”, che si praticavano soprattuto durante il carnevale secondo i rituali festivi cortesi-cavallereschi.
Inoltre nella loro organizzazione interna queste compagnie era contrassegnate dalla presenza di una duplice guida: una religiosa, quella dei correttori (ovvero dei confessori); l’altra laica, quella dei guardiani e custodi, che aveva la responsabilità del governo dell’amministrazione e della disciplina del gruppo. In esse i fancilulli vi apprendevano il valore sociale delle età, il rispetto che si deve ai più anziani e all’autorità. Ma nel seguire le consuetudini civili e cultuali della propria compagni godevano di una certa autonomia. La confraternita si presentava così come una società in miniatura la cui struttura rispecchiava quella del governo comunale.Colpiscono infatti le analogie tra il sistema elettorale del governo fiorentino e quello delle compagnie dei fanciulli, come è dimostrato dai criteri era possibile accedere e essere eletti alle cariche superiori (era ad es. necessario un determinato periodo di presenza nel sodalizio che variava da carica a carica) e le si sottoponevano alla regola della rotazione Esse rappresentavano così un luogo di iniziazione alla vita pubblica I giovani potevano apprendere le regole del governo cittadino e dell’esercizio del suo potere.
Si deve infine osservare, per arricchire il quadro fin qui proposto, che le confraternite non erano il solo luogo dove si compiva e affinava l’educazione del giovane. Infatti fra i 12 e i 21 anni i giovani venivano avviati ad un preciso lavoro nella bottega di un maestro artigiano che nella maggior parte dei casi non era un familiare. Esso era per il fanciullo una figura paterna che non solo faceva apprendere al fanciullo i segreti del mestiere, ma che lo iniziava alla vita morale facendogli apprendere le regole della disciplina e dei rapporti morali.Accanto all’istruzione della bottega si poneva poi quella scolastica.nella quale venivano appresi prima la scrittura e la lettura, poi l’abaco (e più raramente il latino), e infine, in alternativa alla pratica di un mestiere, un curriculum idoneo ad altra professione o alla carriera ecclesiastica.
Luciano Martini