giovedì, giugno 29, 2006

Piccoli principi

Bambini sul palcoscenico
Per anni, come attore e come regista, ho rappresentato, in giro per i maggiori teatri italiani, uno spettacolo tratto da Il piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Con minor ampiezza, ma con lo stesso successo, ho portato sulla scena un’edizione de Le avventure di Pinocchio, sotto forma di teatro misto a musica rock.
In entrambi i casi, il contributo più rilevante al successo di questi allestimenti è venuto dall’interpretazione del ruolo dei piccoli protagonisti da parte di bambini: cosa che può sembrare ovvia, ma che non lo è, per la ragione che la maggior parte dei teatranti teme i problemi, le insidie, le cautele che comporta la presenza di bambini in palcoscenico.
E perciò, per esempio, si danno edizioni de Il piccolo Principe nelle quali la parte del titolo viene affidata a una ragazza appena maggiorenne: perdendosi così la freschezza del capolavoro e creando addirittura un che di ambiguo nel rapporto tra il bambino e gli altri personaggi, in particolare col pilota che rappresenta l’io narrante dell’autore.

La sensibilità
Nel corso degli anni si sono succeduti al mio fianco, sul palcoscenico e tra le quinte, dieci bambini. Dieci mondi diversi, come si può immaginare, alle prese con quella speciale emozione che provoca il palcoscenico, soprattutto quando la grande bocca del sipario rosso si apre su una platea di più di mille spettatori.
Ma forse il problema dell’emozione non è il problema per queste piccole creature, perché sono per lo più dotate di una grande qualità: l’incoscienza, dote che noi attori adulti perdiamo sempre di più con l’età e che dobbiamo surrogare con le arti del “mestiere”.
La paura
Con ciò non voglio dire che siano completamente catafratti: il problema della paura c’è, eccome: tant’è vero che non bisogna trascurare di accertarsi più volte, prima di andare in scena, che abbiano fatto pipì. E inoltre, soprattutto, c’è il diverso modo che hanno di esternare la loro sensibilità: per cui, c’è chi preferisce avere la mamma vicina fino al momento dell’entrata in palcoscenico: chi invece - e sono i più - preferisce che la mamma si allontani, per surrogarla con un’altra figura, in genere la vestiarista che li accudisce per preparali alla scena (e qui si potrebbe aprire una gustosa parentesi sui problemi del pudore dei bambini, che viene spesso messo a dura prova –involontariamente - dalla disinvolta promiscuità dei camerini).

Percorso ludico
E’ ovvio che, fin dalla fase delle prove, cerco di indirizzare il bambino soltanto sul binario di un percorso ludico. Questa fase, che può durare uno-due mesi a seconda delle capacità mnemoniche del bambino o a seconda del tempo a disposizione, è senz’altro la fase più impegnativa e francamente noiosa e non solo per il piccolo: è quindi una fase fatta di accelerazioni e di rallentamenti, che però vengono superati quando sia ben chiaro per il bambino il percorso che deve percorrere e la meta che lo aspetta: una specie di “caccia al tesoro”. Molto contano gli elogi che accompagnano i suoi progressi, i quali non tardano a verificarsi, perché ogni bambino ha in sé una spontaneità che lo porta ben presto a “giocare” il suo piccolo Principe o il suo Pinocchio.
A questo proposito, mi preme di specificare che evito di fare dei provini, che per lo più mortificano i bambini: mi limito a una scelta basata più che altro sull’intuito, talmente sono sicuro che in ogni bambino c’è un piccolo attore potenziale: basta lasciarlo esprimere.

Il teatro che fa bene
Resta da dire una cosa: qual è il rapporto tra il bambino e il fatto estetico più complessivo della messa in scena teatrale? C’è coscienza, nel piccolo interprete, di quello che rappresenta? In altre parole, oltre al gioco del palcoscenico, lo appassiona anche il testo e, in generale, l’”operazione adulta” che accompagna una messa in scena?
Non illudiamoci: in questi tempi di “usa e getta”, l’incanto di una favola, anche se straordinaria come Il piccolo Principe, ha la breve durata di una prima lettura: poi si ritorna alle adorate play station.
Però quello che ho potuto verificare, durante i vari percorsi, è il grado di coscienza “attoriale” che investe gradatamente il piccolo attore.
Diciamo intanto che l’età ideale per iniziarlo a questa esperienza si aggira sui sette anni: è questa l’età -anno più, anno meno- in cui la sensibilità artistica di un piccolo, a seconda del suo talento naturale, è più ricettiva (questo avviene in tutte le discipline: arti figurative, musica, danza, ecc.). Bene, ho sempre notato nei miei piccoli partner una parabola: in una prima fase incantano con l’innocenza disarmante della loro ingenuità infantile. In una seconda fase (certamente “rubando” il mestiere agli attori adulti) diventano padroni del gioco e sono addirittura capaci di spiazzare il partner, vuoi con delle pause inaspettate, vuoi con delle intonazioni originali o dei piccoli cambi improvvisati della partitura teatrale. Infine, in una terza fase, cominciano a denunciare una certa stanchezza, sfoderando spesso il peggio del mestieraccio: ripetitività, distacco e addirittura birignao (che, in gergo, sarebbe quel parlare falso, attoriale nel peggior senso).
Arriva così il momento in cui è meglio separarsi dal nostro piccolo amico: siamo intorno agli undici anni e già porta sul viso i primissimi segni della pubertà. Lascerà dietro alle spalle questa esperienza che gli ha fatto un gran bene: conoscendo la grande famiglia del teatro tra le quinte e sul palco, il timido ha imparato a socializzare, lo scontroso a rilassarsi, l’esuberante a disciplinarsi.
E’ raro che continuino sulla strada del teatro: uno su dieci, per ora. Ma questo è ovvio. Il teatro è un gioco che fa bene. Il praticarlo come professione, da adulto, è tutto un altro discorso.
Italo Dall’Orto (articolo pubblicato su Il nuovo anno 8 n° 1)