domenica, giugno 18, 2006

Adolescenti e rischio: esperienze di prevenzione nella scuola

Negli ultimi trenta anni in Italia si è ridotta in modo consistente la mortalità da incidente nella popolazione generale grazie all'introduzione di fattori protettivi (ad es. automobili più sicure). Tuttavia, questa inversione di tendenza non ha riguardato la popolazione tra i 15 e i 24 anni di età. Numerose ricerche e statistiche segnalano la crescente tendenza dei giovani ad esporsi a situazioni rischiose, spesso fonte di incidenti: aumentano i praticanti degli sport "estremi" (vedi il salto con l'elastico, il parapendio o l'uso sconsiderato dello snow-board, che sta provocando un'impennata degli infortuni sulle piste da sci) ma anche i partecipanti (e gli spettatori) alle corse automobilistiche illegali nelle città, i "tagger" e i "writers", cioè gli adolescenti che graffittano i muri, e i "bombers", impegnati in atti vandalici e nella sfida a vigilantes e forze dell'ordine. Infine è segnalata una ripresa delle infezioni da HIV fra i giovani eterosessuali, causate dalla tendenza ad esporsi a rapporti sessuali non protetti, degli attacchi al corpo, come certi tipi di piercing; mentre sono in aumento, come indicano gli ultimi rapporti Iard, l'uso di alcool e droghe.
Ci si chiede: perché i giovani non rispondono alle misure di sicurezza che sono state introdotte, tenendo conto di tutte le campagne informative - volte proprio a loro - che promuovono l'uso del casco, del profilattico o l'astensione dalla droga? Si può imputare questa "non risposta" esclusivamente al fatto che i ragazzi siano dei temerari che 'amano il rischio', come troppo spesso recita lo stereotipo ricorrente? Capire cosa significa per un giovane rischiare in generale e in particolare il rischio di incidente è la premessa per poter rispondere alla seconda domanda fondamentale e cioè: 'cosa possiamo fare?'. Con questi obiettivi la nostra cooperativa è stata impegnata in alcune ricerche-intervento coordinate dalla prof.ssa Paola Carbone dell'Università "La Sapienza" di Roma. La metodologia che abbiamo utilizzato è stata quella dei focus groups guidati da uno psicoterapeuta esperto sia nelle dinamiche gruppali che adolescenziali. I focus si sono tenuti nelle scuole medie primarie e secondarie, con gruppi-classe costituiti da 20-25 alunni. La scuola, infatti, e in particolare la classe è a nostro parere uno dei contesti privilegiati per la trattazione delle tematiche sul rischio e, in genere, per il lavoro affettivo sulla crescita e rappresenta una risorsa preziosa per lavorare sugli affetti adolescenziali e per aprire nuove capacità di pensare le emozioni. Il lavoro con il gruppo-classe offre la possibilità di tracciare una memoria gruppale e, progressivamente, anche una memoria istituzionale di quanto è stato appreso. Naturalmente perchè l'esperienza lasci una traccia nella scuola è necessario che l'intervento abbia una certa durata e coinvolga anche i docenti e i genitori, entrando a far parte del bagaglio culturale dell'istituzione stessa.
I focus groups hanno previsto momenti di riflessione individuale, mediati da questionari autosomministrati che chiamavano in causa i singoli partecipanti e discussioni gruppali, in cui i punti di vista individuali venivano confrontati e rivalutati. In sintesi, abbiamo costruito dei percorsi che consentissero ai partecipanti di compiere tre fondamentali movimenti: - riflessione individuale: non è infatti detto che i giovani si siano già esplicitamente interrogati sul rischio e le sue diverse implicazioni; - confronto con i pari: il gruppo consente ai singoli partecipanti di riconoscersi dialetticamente nelle differenze ma anche di dire senza dire, utilizzando, grazie all'identificazione, il punto di vista e l'influenza altrui; - comunicazione con l'adulto: il conduttore del gruppo non è colui che interroga, che valuta o che consiglia ma piuttosto una presenza che facilita l'espressione e lo scambio e contiene l'ansia, garantendo l'articolazione dei singoli contributi in un percorso.

La parola agli adolescenti
Gli adolescenti che abbiamo incontrato sembrano configurarsi il 'rischio' in modo polimorfo e sfumato: "Il rischio non è altro che un pò tutto assieme, tante cose diverse". Il 'rischio' evoca nella mente dei ragazzi la 'sfida', che rimanda anche alla trasgressione, all'eccitazione e al coraggio ma anche il 'pericolo', e dunque la paura, il vuoto, la fatalità. Il ‘rischio’ si colloca tra la riflessione senza azione e l'azione senza pensiero; tra il controllo che rende gli eventi imprevedibili e l'assenza di controllo, che espone all'imprevedibilità; tra la banalità e l'eccezionalità, tra attività e passività; tra la dimensione fisica (corpo) e la dimensione psicologica (mente); tra il presente e il passato; tra il piano concreto e il piano interpersonale.
Al di là delle contrapposizioni, nelle rappresentazioni della maggior parte dei ragazzi emerge la comune consapevolezza che la tendenza a rischiare può essere motivata da "qualcosa di personale", cioè qualcosa che sta dietro la fenomenologia dell'evento. Il rischiare dunque appare nella mente dei ragazzi non fine a se stesso ma fortemente determinato da motivazioni sottostanti. Anche se alcuni appaiono più protesi verso l'autoaffermazione e la differenziazione ("il rischio è ciò che esula dalla mia volontà") la tendenza prevalente è una spinta a rischiare per ottenere legittimazione e 'accreditamento' da parte degli altri, in special modo dal gruppo dei pari. Infatti "si rischia di più quando si è in compagnia". I ragazzi utilizzano il gruppo dei pari come prevalente sistema di riferimento per l'adozione o l'evitamento dei comportamenti rischiosi ma esprimono anche il bisogno di adulti competenti capaci di sostenerli nel loro sforzo di orientarsi tra scelte diverse e di coinvolgersi con loro nell'elaborazione del significato delle esperienze. Nell'esperienza dei ragazzi inoltre i diversi comportamenti rischiosi tendono ad intrecciarsi e a influenzarsi reciprocamente, come se il rapporto fosse più con il rischio in quanto tale che con i comportamenti. Alla luce di questa prospettiva la determinante principale per la valutazione della 'rischiosità' di un comportamento sembra essere, piuttosto che il comportamento in sé, il contesto all'interno del quale viene adottato, l'esito dell'azione, oppure il grado di motivazione personale. Il termine rischio suscita nei ragazzi immagini contrapposte: una serie di rappresentazioni sembrano orientate verso una valutazione positiva; altre, invece, sottolineano gli esiti infausti del difetto di valutazione. Con questa ambivalenza i ragazzi sembrano rispecchiare un'incertezza diffusa, insita nella nostra cultura e ben rappresentata dalla coppia antitetica di due noti proverbi: "chi non risica non rosica" e "tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino"; ma se in tutti noi è così profondamente radicata l'immagine ambivalente del rischio, c'è proprio da chiedersi che senso possa avere il messaggio, ribadito da manifesti e slogan: "Ragazzi, non rischiate!".
Al di là delle differenze individuali, dalle discussioni in gruppo sono emersi aspetti comuni, su cui si potrebbero fondare utilmente le strategie preventive: - Le radici del comportamento a rischio sono profonde: non si rischia per disinformazione. - La valutazione delle conseguenze negative di un comportamento rischioso è condizionata da due caratteristiche fasi specifiche: a) Il vissuto del tempo. È più urgente conformarsi alle aspettative del gruppo che considerare le conseguenze dei comportamenti: la situazione attuale, l' "ora", ha molto più rilievo del futuro, "il dopo"; b) Il vissuto del corpo. Le conseguenze di alcuni comportamenti sulla salute o sull'integrità somatica sono largamente sottovalutate; è più importante essere come gli altri che sentirsi bene: emerge una scissione tra 'essere-con' e 'ben-essere'. - Tutto ciò che suona come critica, minaccia o indottrinamento non facilita l'introiezione di un modello di autoprotezione e può addirittura essere controproducente (le campagne preventive vengono equiparate alla pubblicità e ritenute non credibili). - Il confronto con il gruppo (che non offre soluzioni ma pone domande) è stato considerato l'unico vero fattore protettivo contro i comportamenti a rischio che "scattano" in modo istintivo e automatico.

Per concludere
L'obiettivo che è ragionevole porsi non è l'abolizione di tutti i comportamenti a rischio ma il raggiungimento di una visione equilibrata del rapporto con il rischio. Pensiamo che in adolescenza la prevenzione utile sia quella di attivare riflessioni e nuove rappresentazioni: una situazione stimolo a favore del processo di soggettivazione. In questa prospettiva non ha tanta importanza l'argomento (droga, incidenti...) su cui è focalizzato l'intervento; il vero focus della prevenzione è la persona dell'adolescente e la difficoltà fase-specifica di appropriarsi della sua vita e di riconoscersi come soggetto delle sue azioni. Abbiamo visto con quale senso di ineluttabile fatalità vengono valutati dai ragazzi i diversi rischi; un senso di fatalità che ci parla del rischio fondamentale che corre ogni adolescente: quello di vivere la propria vita nell'intima convinzione di non essere lui il soggetto, il responsabile, l'autore, il proprietario della sua vita stessa.
Si tratta di una situazione 'normale', perché legata al processo di maturazione ma anche pericolosissima, per chi, non più bambino, ha in realtà tra le mani i comandi della sua vettura e che non può essere corretta da tutti i consigli e le raccomandazioni che noi adulti vorremmo rivolgere ai giovani, messaggi il cui risultato paradossale è quello di confermare il destinatario nell'idea infantile - e rischiosa - di appartenere ai genitori e non a se stesso.
Non avendo progettato una verifica dei nostri interventi non possiamo dire con precisione ciò che è cambiato nel punto di vista dei ragazzi. Possiamo dire però che i comportamenti rischiosi visti dalla parte dei giovani non ricalcano quell'immagine di piacere nella sfida e nella trasgressione con cui noi adulti tendiamo a rappresentarci il fenomeno. Prima di tutto di 'piacere' si è parlato pochissimo, mentre molto si è detto di vuoto, paura, pericolo, solitudine e follia. Secondo: il rischio per eccellenza, quello a cui pensano subito e che li preoccupa costantemente non è la droga o l'incidente ma la perdita del consenso dei coetanei; pur di evitare questo rischio estremo vale la pena di esporsi a tutti gli altri, seppure con ansia e paura. Terzo punto: di questo rischio estremo, quello di perdere i rapporti importanti, non si parla né facilmente, né direttamente. Della dipendenza dal gruppo non si può parlare senza rischiare la vergogna di far riemergere quel bambino bisognoso che si pensava di aver definitivamente eliminato. Ultimo, ma non ultimo: ai ragazzi piacerebbe parlare seriamente delle cose che seriamente li preoccupano ma tra loro non ci riescono perché l'ansia si trasforma velocemente in imbarazzo, vergogna e allora il ricorso alla battuta, alla risata appare un'onorevole via d'uscita. Che nel gruppo la parte seria la sostenga l'adulto è un grande sollievo perché consente un utilizzo più fluido dei meccanismi di difesa e, attraverso l'identificazione, di sperimentare per interposta persona la propria serietà. I ragazzi sono molto più interessati a parlare tra di loro che con noi ma la nostra presenza, se facilita il loro dialogo, è gradita.
Emilio Masina