domenica, settembre 17, 2006

Dalla informazione alla formazione degli educatori: alla ricerca dei ruoli perduti

Le mie riflessioni nascono da una proficua esperienza sul campo: da alcuni anni affianco alla mia attività di psicoanalista il mio contributo nel processo di formazione degli educatori in alcune scuole.
Il mio impegno in questo senso nasce dalla profonda convinzione della crescente necessità che la conoscenza psicoanalitica venga messa a disposizione delle istituzioni, in modo appropriato, proprio in quella che potremmo designare come “l’era della formazione”.
Nessuna attività umana sembra ormai neppure pensabile senza passare per qualche corso formativo!…Neppure il gioco e il divertimento di bambini ed adulti sono ormai franchi da questa “necessità”. Se la “formazione” appare in crescita nella sua consistenza pragmatica, talvolta si mostra evanescente nei contenuti, fino a rischiare di divenire una parola consunta e inutilizzabile per il troppo od improprio uso che se ne fa.
Dunque uno dei primi compiti di chi si impegna in una attività formativa, a mio avviso, è proprio di avere cura di conservare il senso della “Formazione”: il suo obbiettivo e il percorso più idoneo a raggiungerlo.
G.Graziani e G. Magherini , nell’articolo “Disagio dei bambini nella famiglia e nella società”, sottolineano il ruolo protettivo degli spazi scolastici e ricordano la funzione della scuola come osservatorio dei bisogni emergenti, di rischi e disagi, nonché come luogo di promozione della crescita in salute e benessere. Dunque la formazione degli educatori non può che essere pensata come un aiuto a svolgere queste funzioni, almeno altrettanto importanti di quelle didattiche. Il fine dell’intervento formativo diviene, allora, un contributo alla costruzione di un ambiente educativo “sufficientemente buono” per coltivare la ricchezza rappresentata dall’infanzia.
A questo scopo non è sufficiente che gli educatori siano resi più eruditi sulle teorie dello sviluppo normale o patologico dei bambini. Una corretta informazione è soltanto una parte della “formazione”, una parte integrante e che deve rimanere integrata. L’offerta di un sapere psicologico “scisso”, non è soltanto inutile, ma spesso dannosa.
Chi si impegna a fare formazione spesso si confronta proprio con gli effetti deleteri, prodotti sugli adulti, dalla dis-informazione o cattiva informazione mediatica sul mondo dell’infanzia e deve, a sua volta, essere formato a non produrne altrettanti e persino peggiori perché occultati dalla autorevolezza della propria veste professionale.
Il rischio più frequente di tale tipo di informazione è il disorientamento che si produce in insegnanti e genitori circa il proprio ruolo. Il disorientamento circa la propria identità professionale può condurre talvolta ad allontanarsi dalla funzione educativa per improvvisare un pericoloso atteggiamento psicodiagnostico o psicoterapeutico, che nulla hanno a che fare con la più sensibile ed appropriata attenzione all’infanzia che si vorrebbe promuovere con la formazione. Il disorientamento si intreccia poi facilmente ad un senso di inadeguatezza che genera, a sua volta, improprie domande di intervento: richieste al sapere psicologico di ricette buone per tutte le occasioni o di interventi specialistici su ogni inciampo nello sviluppo dei bambini patologizzando ogni normale difficoltà della crescita e deresponsabilizzando tutti: adulti e bambini. E’ fondamentale in questi casi individuare il reale bisogno degli educatori di essere aiutati a ridefinire e a consolidare la loro identità professionale.
Un altro guasto, non meno grave, può derivare da una in-formazione improntata ad un erroneo concetto del “puerocentrismo”. Se la “formazione” viene proposta agli educatori considerandoli, quasi per definizione, totalmente asserviti ai bisogni del bambino si perde di vista che l’identità professionale altro non è che un aspetto dell’identità di un essere umano e che, più che mai in professioni come questa, ciascuno svolge le proprie funzioni in ragione della persona che è, del proprio bagaglio umano che contiene anche i disagi personali, insieme a quelli prodotti proprio dall’ambiente in cui si trova ad operare.
Per un malinteso “puerocentrismo” i bambini, paradossalmente, rischierebbero di perdere i vantaggi che, grazie alla centralità, si vorrebbero loro accordare. Come si potrebbe, infatti, promuovere, esigere per il bambino lo sviluppo armonioso del suo potenziale innato, se l’humus, l’ambiente in cui questo processo deve evolvere è costituito da adulti offesi nella loro individualità, assimilati a strumenti al servizio dell’infanzia, da un uso improprio del sapere psicologico? Sono molte le contraddizioni implicite nei programmi formativi e tra questi ultimi e l’organizzazione della scuola.
Come si possono sensibilizzare gli educatori all’ascolto rispettoso dei tempi e dei ritmi di ciascun bambino, quando essi stessi sono travolti nel ritmo vorticoso prodotto dalla burocratizzazione della scuola, dal proliferare di attività e, paradossalmente, persino dalla sovrabbondanza di corsi di formazione?
In un celebre passaggio del suo libro “Sulla natura umana”(1988) D. Winnicott scrive:
“Il corpo del bambino appartiene al pediatra.
L’anima appartiene al ministro del culto
La psiche appartiene allo psicologo dinamico
L’intelletto appartiene allo psicologo
La mente appartiene al filosofo
Lo psichiatra rivendica il disturbo mentale
L’ereditarietà appartiene al genetista
L’ecologia rivendica un interesse nell’ambiente sociale
La sociologia studia il setting familiare e la sua relazione sia con la società che con il bambino
L’economia esamina le tensioni e le spinte dovute ai bisogni in conflitto
La legge interviene per regolare ed umanizzare la pubblica vendetta causata dal comportamento antisociale.”
Credo che soltanto domandandosi “a chi appartiene l’adulto che si occupa del bambino” si possa lavorare per costruire intorno al bambino l’ambiente che faciliti o aiuti il suo sviluppo unitario. Adulti “interi” forse possono aiutare lo sviluppo di bambini interi. Per questo se la formazione degli educatori non vuole perdere di vista il suo obbiettivo di servizio a favore dell’infanzia deve operare riconoscendone la loro indipendenza dal bambino, lasciando “il bambino sullo sfondo”, come sapientemente descrive Elena Liotta.
Preoccupandosi dell’adulto che si relaziona con il bambino, si può compiere il passaggio dalla informazione alla formazione di educatori più consapevoli delle necessità dell’infanzia, ma anche dei propri bisogni, problemi e soprattutto delle loro funzioni educative.
Questa esperienza appare efficacemente raccontata da Elena Liotta, da molti anni impegnata nei corsi di formazione nelle scuole, nel suo libro: “Educare al Sé. Formarsi per incontrare i bambini”.
In questo approccio alla formazione lo strumento psicoanalitico si pone al servizio del sociale. Il lavoro di formazione diventa soprattutto un momento di ascolto dei dubbi, dei problemi e della fatica che nascono dalla quotidianità della professione per mescolarsi al bagaglio personale di ciascuno. L’intento è quello di aiutare l’educatore a trovare le proprie risposte e possibilmente a “stare meglio”; si potrebbe dire : favorire l’individuazione dell’educatore perché possa favorire l’individuazione dei bambini. Questo lavoro con gruppi di educatori presuppone però un conduttore di solidissima identità analitica per operare la distinzione tra due termini che nella stanza dell’analisi sono saldamente intrecciati e conseguenziali: ascolto analitico e interpretazione.
Utilizzando il modello di Bion per l’osservazione e l’ascolto del gruppo, il conduttore si impegna in una comprensione silenziosa della situazione e cerca una modalità di intervento adatta ad una situazione che non è psicoterapeutica.. “L’aspetto più delicato- scrive Elena Liotta- rimane quello della restituzione al gruppo di una lettura della sua dinamica che risulti comprensibile, accettabile, elaborabile in senso trasformativo .”
Geni Valle