martedì, luglio 18, 2006

Lo sviluppo del fanciullo disabile

Un bambino disabile viene al mondo in una famiglia ove una coppia di genitori attendeva, e idealizzava nelle proprie fantasie, un bambino sano. La famiglia in toto, dai nonni ai fratelli, sarà condizionata, spesso nel senso della destabilizzazione, dalle conseguenze affettive della patologia del bambino disabile. La prima reazione della coppia genitoriale è una corsa senza fiato presso i vari “oracoli” allo scopo di raggiungere una diagnosi che faciliti la messa a fuoco del bambino, il suo riconoscimento, la sua definizione; come se la coppia genitoriale si trovasse nella difficoltà del riconoscimento di quel bambino per la persona che egli è.
Andreas Giannakoulas ci ha insegnato che il piccolo Iiro, paziente disabile di Winnicott, comunicò a questi che avrebbe cooperato con chiunque si fosse interessato al suo recupero purché fosse stato primariamente accettato così com’era, per la persona che era; non parlavano la stessa lingua e comunicarono attraverso la tecnica dello ‘sguiggle’, lo scarabocchio, creata da Winnicott stesso.
È un paradosso: “cambio se mi accetti come sono”; è uno dei paradossi con cui spesso Winnicott descrive l’evoluzione del bambino.
Un bambino vede se stesso specchiato negli occhi della madre. Dal lavoro analitico con bambini disabili emerge che spesso loro vedono, in quegli occhi, non se stessi ma la delusione di un sogno. Alle volte, in quegli occhi, non riescono a vedere nulla, poiché la madre è per suoi limiti troppo confusa tra il bambino reale e quello fantasmatico, e allora si profila spesso il rifiuto ab initio dello sviluppo.
Molte volte quadri di psicosi si impiantano su condizioni anche leggere di disabilità.
Altre volte la madre entra in un vortice depressivo ed il bambino potrà scorgere, negli occhi di lei, un piccolo che rattrista la madre e potrà conoscere se stesso in quanto colpevole.

L’altro bambino
Non è grave conoscere la colpa, suggerisce Winnicott, purché il bambino possa sentire che la madre è disponibile a farsi riparare da lui, ma per il bambino in questo caso il circuito della riparazione, il “circolo felice” si può fare perverso, poiché egli, per riparare la madre, dovrebbe divenire quel bambino sano che non è e non è stato, per la qual cosa la mamma è delusa. La riparazione comporterebbe allora la rinuncia al riconoscimento di se stesso, a favore dell’altro bambino, ‘sano’, che non è mai nato. Il bambino allora intraprende una corsa verso l’aderire quanto possibile al bambino che vede negli occhi della madre, fino a sentire che più si va avanti e più lui scompare. Così si blocca: i processi evolutivi subiscono un arresto o un’inversione di senso. Il fenomeno è frequentissimo e le conseguenze sono gravi.
Le impasse nei processi di recupero sono i motivi più citati per i quali la famiglia di un bambino disabile, più o meno consigliata dall’équipe che lo segue (quando c’è), ricorre all’analista infantile. L’analista infantile spesso riceve a colloquio una famiglia oramai consumata, alterata negli equilibri e nei ruoli: il centro del loro interesse - l’area di collusione della coppia genitoriale - non è il bambino disabile, ma la disabilità.
Il bambino blocca la propria crescita psichica e fisica perché la rincorsa di quel bambino sano, riverberante negli occhi della madre, lo sta allontanando da ciò che egli sente di essere e, se ce la fa, smette di rincorrerlo, e quindi di crescere in quel modello patologico, in ragione di quanto è sano.

Il girone centrale: la colpa
Intanto la famiglia è allo sbando: i fratelli, per sentirsi amati, chiedono le grucce o il caschetto per le crisi epilettiche; la coppia genitoriale, colludendo sull’handicap, vive solo per la disabilità: non va più alla ricerca della creatività, della sessualità, della procreatività, non esce la sera, non frequenta gli amici, non si distrae dalla propria colpa. Ecco quindi il ‘girone centrale’: la colpa. Si parla spesso del senso di colpa di questi genitori, relativa al non aver accettato il bambino, ed a mio avviso si fa male. Dalla mia esperienza terapeutica emerge che tale affetto è qualcosa di così radicato nel loro inconscio da far sì che rappresentazioni più esterne, come quella che si crea quando se ne parla con loro in modo discorsivo, o quando la si connette con superficiali sensi di colpa di non accettazione, altro non faccia che sospingere difensivamente ancora di più nell’inconscio l’affetto che l’incoscio stesso avvertirebbe come semi-svelato. Penso che se questi genitori non hanno un apparato psichico più che saldo, il senso di colpa arrivi a psicotizzargli la mente, come frequentemente si può ricavare dalla pratica clinica. A questo punto del dramma le potenzialità evolutive del bambino, dal corpo alla mente, possono essere in maniera significativa compromesse: la crescita rallenta, l’evolutibile s’insabbia.
La scena può quindi continuare con la coppia genitoriale che riflette sul fatto di aver investito tutto sul figlio più malato, col risultato di vedere che non solo quello bloccato ma anche i fratelli, non seguiti a sufficienza per mancanza di energie psichiche, sono sofferenti, ritardati o devianti nello sviluppo. Ciò provocherebbe un incremento del senso di rabbia dei genitori verso il figlio disabile ingrato; rabbia ancora una volta denegata, dissociata, rinnegata dalla parte cosciente della propria psiche, poiché si tratta di un affetto inaccettabile, quindi impensabile. La rabbia inconscia può incrementare il senso di colpa inconscio e l’utilizzo sovrinvestito di meccanismi riparativi nella diade genitoriale (se a livello inconscio mi rendo conto di avere rabbia per un mio bambino malato, mi sentirò in colpa per il mio affetto e tenterò di riparare: un lavoro tutto nell’incoscio). Ciò, praticamente, si esprime con un ulteriore incremento di operosità per la causa del bambino disabile, che si coniuga con l’incremento parallelo di un messaggio sotterraneo ma psichicamente filtrante di tipo opposto, determinando un doppio messaggio: quello emergente di affetto positivo ed operosità e quello sotterraneo, ma ben percepito inconsciamente dal bambino, di rabbia e rifiuto. A questi livelli si può profilare il ‘crollo’ psichico del più debole: del bambino disabile, di un genitore o di un fratello.

Che fare?
Dall’esperienza risulta che la presa in considerazione anche delle dinamiche psichiche ad insorgenza nell’ecosistema disabilità, può determinare una limitazione significativa dei fenomeni responsabili in parte dell’inibizione dell’evoluzione psicofisica dei bambini disabili. Dati clinici dimostrano che un lavoro sistematico, ovvero una psicoterapia psicodinamicamente orientata con le coppie genitoriali ed un lavoro analogo di supervisione con i tecnici che a diverso titolo si occupano del bambino - dai terapisti di riabilitazione agli insegnanti - porterebbe ad una riduzione significativa degli esiti di una disabilità in età evolutiva. Se ciò non bastasse si dovrebbe intervenire anche sul bambino, avviando una psicoterapia psicodinamica con lui da solo od insieme alla madre, a seconda delle peculiarità del caso.

Arretratezza italiana
Per inquadrare la situazione va detto che nel nostro paese si registra un’arretratezza rispetto a parametri di altri paesi evoluti. Si pensi, ad esempio, che a Barcellona, da circa 20 anni, si lavora con questo modello terapeutico con eccellenti risultati, mentre da noi, il servizio sanitario pubblico pare prevedere il sovvenzionamento per la terapia riabilitativa ma non per il parallelo, metodico e costante, trattamento psicologico nel senso psicodinamico. Posizione a mio avviso ‘miope’ anche sul solo piano economico, poiché provoca l’incremento successivo di spesa pubblica a vita per il disabile adulto scarsamente riabilitato in età evolutiva. Poi ci sono i molti casi in cui, coraggiosamente, si procede ugualmente, si cercano i fondi, le possibilità, ma spesso tutto ciò è a carico dell’impegno personale di illuminati neuropsichiatri infantili e delle loro équipe.
Sarebbe anche interessante pensare ad una maggiore articolazione pubblico-privato, ove Società di psicoterapia psicoanalitica dell’età evolutiva altamente specializzate in materia, quali ad esempio la S.I.Ps.I.A. di Roma, eroghino, in regime di consulenza, detti servizi professionali presso le U.T.R. delle Aziende Sanitarie Locali di competenza.
Per i bambini disabili, varrebbe la pena attivare tale modello: riflettere insieme e coniugare gli sforzi.
Tito Baldini